Alberto Sinigaglia, la Stampa 22/3/2014, 22 marzo 2014
“VIVA L’ENDECASILLABO ANCHE IN CURVA SUD”
«I Dj non danno mai del lei/ che fanno di preciso non saprei./ Vestiti sempre in modo giovanile/ sgriciano la puntina sul vinile./ I Dj dicono spesso “Occhèi”». Con limerick scapigliati Nicola Piovani sigilla dieci capitoli dell’autobiografia, La musica è pericolosa (Rizzoli), come lo ammoniva Fellini, che la sentiva penetrare nell’inconscio, «una specie di minaccia, un risucchio». Quei cinque versi di graffio o di sorriso, scritti - spiega il maestro - «per paura d’esser preso troppo sul serio», mancano alle pagine finali: «Vi confido il mio rapporto intimo con l’esistenza, l’aldilà, il sovrannaturale, il divino. Chiudo con una canzone, “Caminito”, cantata da Mastroianni. Ricordo troppo toccante per sciuparlo con altre parole».
Il pianista-compositore caro a Rota e De Andrè, a Benigni, Monicelli, Moretti, Tornatore e ai Taviani, vincitore di un Oscar e «Chevalier» delle arti e delle lettere francesi, da tempo si chiedeva: «Sarò in grado di scrivere un vero libro, di controllare la prosa come controllo una partitura?».
Ci è riuscito. L’ha aiutato la lettura?
«Sono un lettore appassionato, ma molto lento. Dedico le vacanze a rileggere un librone con la lente d’ingrandimento. Prendo appunti, sottolineo. L’ho fatto con I Demoni di Dostoevskij. L’ho fatto con Bel-Ami, tra i più bei romanzi mai letti. Maupassant mi cattura come Ravel con quattro accordi, che non significa sia meglio di Debussy o di Stravinskij».
Dall’emozione della lettura come nasce il desiderio di un’opera musicale?
«Sto riguardando un romanzo di Cerami. Il nostro sodalizio ha fruttato due cantate sinfoniche, un dramma musicale, quindici canzoni. Avevamo un progetto su Amorosa presenza, mi piacerebbe farne una commedia musicale. Quando lessi il poemetto Padre Cicogna di Eduardo pensai a una cantata sinfonica. Il sogno si è realizzato solo vent’anni dopo, con Luca De Filippo voce recitante».
I critici musicali che per lei hanno contato di più?
«Massimo Mila con La breve storia della musica e Fedele d’Amico con I casi della musica, Un ragazzino all’Augusteo e i tre volumi con le critiche uscite sull’”Espresso”. Stanno accanto al divano nel mio studio, con Il resto è rumore di Alex Ross».
Adorno che posto occupa?
«E’ un critico musicale partigiano. Un grande quando scrive di filosofia: i Minima moralia conservano intatta la loro potenza. Gli scritti sulla nuova musica, dove definisce Schönberg il progresso, Stravinsky la reazione, fanno ridere come i bollettini di “Servire il popolo” del ’68».
Nel libro racconta le sedute con Nino Rota. «Seduta» evoca la psicoanalisi...
«Freud e Jung sono occhiali nuovi per vedere il mondo. Come Marx, sebbene inattuale, come Einstein. È l’unica cosa che davvero mi dispiace della morte: non poter calzare tra cent’anni nuovi occhiali e scoprire che quanto credevo fosse zucchero in realtà era sale».
Rileggere è come riascoltare?
«E’ importante soprattutto per la poesia. E per le opere letterarie in cui l’invenzione linguistica abbia un aspetto sonoro. Per esempio, il Pasticciaccio di Gadda con le sue intrusioni dialettali. La prima volta che lo leggi sei pieno di stupore, t’incanti. Lo rileggi e ti si aprono le praterie di emozione che provi al riascolto d’una sinfonia di Schubert».
Che rapporto ha con la poesia?
«Scandalizzerò qualcuno. Ma mi limito, per quanto possibile, alla poesia italiana. Seguo un po’ quella francese. La traduzione di un romanzo ci fa perdere il venti o trenta per cento dell’originale. Quella dei versi può far trascolorare tutto. Leggere Eliot tradotto è un atto di fede. Saba scrive su Ulisse versi liberi e alla fine piazza un endecasillabo: “e della vita il doloroso amore”. Come chiudere con un accordo consonante un brano totalmente dissonante. Non basta un traduttore per riprodurre quella musicalità, ci vorrebbe un poeta. Che noia la poesia di Enzensberger e Berardinelli, libro a prima vista ingenuo, mi riconcilia con l’idea della poesia che non osavo pronunciare: poesia in senso tecnico è anche uno slogan pubblicitario, poesia è anche “Moggi Moggi devi morire oggi” della Curva Sud di Roma. Non è “Guido i’ vorrei che tu e Lapo ed io”, però è poesia. L’endecasillabo è uno dei più bei misteri della lingua italiana, non finisce di stupirmi. Lo trovi in Dante come in Belli e Pascarella, in Carlo Porta. E nella lingua parlata. “Appena avrò finito l’intervista” è un endecasillabo».
In una pagina di «La musica è pericolosa» le viene in sogno la Treccani. Nostalgia per le enciclopedie?
«Mi sono sempre piaciute. Avere la Treccani era l’aspirazione di chiunque amasse i libri, e un investimento. Era lo sfondo per le foto e le interviste tv di grandi personalità. Dire “un giorno avrò la Treccani” era come dire “un giorno sposerò Marilyn Monroe”»....
O «un giorno incontrerò Umberto Eco»...
«Da quando ho l’età della ragione per me Eco è l’intelligenza pura. Aspettavo i suoi articoli per fare esercizio mentale. Poi accadde che proprio qui a Milano ricevesse un premio e io dovessi suonare per lui. Come incontrare Sofocle, Aristotele, Hegel. Insieme dietro le quinte, a cena. Appassionati di enigmistica, giocammo con le crittografie».
Elsa Morante occupa uno spazio speciale tra i suoi maestri.
«Frequentava la compagnia teatrale di Carlo Cecchi, nella quale lavoravo e suonavo. Elsa amava la musica e amava parlarne. Facevamo lunghe discussioni. Lei detestava Wagner, a me piaceva. E adesso mi è venuta una passione smodata per la Tetralogia».
Quando era bambino per lei il premio era - lo confida nel libro - «uno squaglio di cioccolato». Adesso che cos’è?
«Per Chaplin la cosa più bella era “sentire il pubblico che ride”. Per me è percepire che il mio lavoro sulle emozioni musicali e teatrali scavalca la ribalta, arriva in platea, raggiunge la galleria».
Se la musica è pericolosa, una stecca quanto lo è di più? E quanto le dà fastidio?
«Più della stecca m’infastidisce l’orgoglio di chi stecca, nella musica e nella vita. Mi pesa e mi addolora nella comunicazione moderna la disattenzione al linguaggio, al pensiero che c’è dietro il linguaggio. Mi infastidiscono quelli che aprono le parentesi e poi non le richiudono».