Claudio Gallo, la Stampa 22/3/2014, 22 marzo 2014
UN BAVAGLIO A WEB E GIUDICI COSÌ IL SULTANO “CANCELLA” I GUAI
A fine mese, le elezioni amministrative in Turchia non decideranno soltanto il nuovo sindaco di Istanbul, Ankara e Smirne. Dopo la recente stagione di scandali e scivoloni autoritari, saranno un test per valutare se il premier Erdogan sia ancora in grado di restare agevolmente in sella, oppure se il sogno dell’islamismo moderato «alla turca» non sia, più o meno lentamente, destinato a sbriciolarsi.
Erdogan si è liberato per tempo dello strapotere dei militari, abituati a essere i veri padroni della politica turca (tre golpe e due mezzi golpe dal 1960 al 1997), con una serie di dubbi processi per cospirazione, preceduti da retate di generali e giornalisti. Il governo ha da tempo cominciato a mostrare una crescente insofferenza verso le regole democratiche, specialmente nei confronti dei media non allineati e dei social network. Secondo il Committee to Protect Journalists la Turchia è da due anni maglia nera della libertà d’informazione, davanti a Iran e Cina. Lo scorso anno sono finiti in prigione 40 giornalisti, l’anno prima 49.
In questo clima di tensione, che sta provocando una polarizzazione della società turca tra favorevoli e contrari al pugno di ferro del premier, matura la rottura tra Erdogan e il suo grande alleato, Fetullah Guelen, ex imam ritiratosi in Pennsylvania. Il network di Guelen, chiamato popolarmente Hizmet, è una organizzazione islamica moderata, attiva in tutta l’Asia fino allo Xinjiang cinese, che per alcuni osservatori, come l’ex collaboratrice del Fbi Sibel Edmonds, sarebbe legata alla Cia. Hizmet conta legioni di iscritti nella polizia, nella magistratura, nella burocrazia turca, nello stesso partito di maggioranza. Ora il premier ha scoperto che è «uno stato parallelo». Guarda caso, appena il flirt politico si conclude, la polizia scopre un enorme scandalo di corruzione che coinvolge diversi figli di ministri dell’Akp. Cominciano a diffondersi sul web intercettazioni compromettenti dei politici della maggioranza. La reazione del Sultano è furibonda: 10 mila tra poliziotti e magistrati trasferiti, il potere giudiziario schiacciato sotto il tallone di quello politico. Clamorosa l’espulsione di Mahir Zeynalov, responsabile dell’edizione online di «Today’s Zaman», un giornale turco vicino a Guelen: cittadino azero, Zeynalov è messo su un aereo e spedito a casa per «aver insultato alti funzionari del ministero dell’Interno».
Le intercettazioni più esplosive arrivano a dicembre: come nel dialogo tra due gangster di Scorsese, Erdogan e il figlio Bilal parlano di centinaia di milioni in euro e dollari da trasferire dalle case di famiglia prima che qualcuno decida di andare a curiosare. Bilal a un certo punto sbotta estenuato: «Dobbiamo far sparire ancora 30 milioni di euro». Erdogan, livido, spiega alla tv che si tratta di una montatura: fango, solo fango. I media occidentali sono cauti, la «Bbc» fa notare che nelle intercettazioni la voce del leader è flebile e incerta, non perentoria come al solito.
Dice Buhran Shenatalar, professore di Economia all’Università Bilgi di Istanbul: «La situazione è allarmante. C’è un crescendo di autoritarismo che si riflette in un linguaggio violento e aggressivo usato nei confronti di ogni tipo di opposizione. A essere in pericolo è lo stesso ruolo della legge. Purtroppo molta gente non se ne rende conto, ma il Paese sta scivolando verso una pericolosa polarizzazione».
Anche lo storico Jeremy Salt, dell’Università Bilkent di Ankara vede il pericolo di una frattura nel Paese: «Le tendenze autoritarie di Erdogan sono evidenti da molto tempo ma lo scandalo delle intercettazioni ha provocato un’accelerazione. Il governo ha preso il controllo diretto della magistratura e di Internet per cercare di soffocare le accuse di corruzione. Il Paese è drammaticamente diviso tra sostenitori e detrattori del premier. Non so con quali tempi, ma mi sembra chiaro che l’era di Erdogan stia volgendo al termine. Finché rimane al potere il Paese non guarirà dalle sue ferite». «Erdogan sta combattendo per la sopravvivenza - ha scritto su «American Interest» Henry Barkey, professore di relazioni internazionali - ma il terreno sta franandogli sotto i piedi. La vita economica del paese è diventata la prima vittima della crisi. Non ci sono roboanti recriminazioni contro veri o presunti nemici che possano riparare il danno di immagine subito dal ruolo della legge, e dalla capacità di affrontare le crisi in Turchia».