Maria Pia Fusco, la Repubblica 22/3/2014, 22 marzo 2014
LA CARICA DI ISABELLA
ROMA Sedici film in otto anni, senza trascurare il teatro, un Montalbano per la tv e letture di videolibri, ultimo La ragazza con l’orecchino di perla in occasione della mostra di Wermeer a Bologna. Quella di Isabella Ragonese è una carriera bella e meritata, costruita con impegno e tenacia, a cominciare dai testi che scriveva e spediva ovunque.
«Ero attaccata ad Internet, ad ogni bando teatrale mandavo i miei progetti, e su dieci proposte almeno un paio venivano accettate. Credo che chiunque in Italia abbia un mio progetto di quel periodo. Vivevo a Palermo, una città isolata geograficamente e culturalmente, era il mio modo di uscirne restando a casa», dice l’attrice siciliana, 33 anni, che in questi giorni ripropone African Requiem, lo spettacolo di Stefano Massini dedicato ad Ilaria Alpi, a vent’anni (il 20) dalla sua morte. «Ilaria Alpi aveva la mia età, questo mi ha molto colpito. Mi sono immedesimata in lei e nella passione per il suo lavoro, ho cercato di non mitizzarla e di raccontare una ragazza che si trova in Africa, affascinata da questo mondo e ha voglia di fare il servizio della vita. Con la giusta ambizione di chi crede in quello che fa e nella ricerca della verità: è giusto per questo pagare un prezzo così alto? E mi ha colpito che sono passati vent’anni ma sembrano tanti di più, perché è come se la sua storia fosse stata un po’ sepolta. Per me è bellissimo quando con il mio lavoro posso contribuire a tenere vivo un ricordo».
Teatro, cinema, da Nuovomondo del 2006 non si è più fermata.
«Non sarò mai abbastanza grata a Emanuele Crialese, è stata un’esperienza unica, mi ha fatto scoprire l’umiltà del cinema, il piacere di essere parte di un gruppo all’interno del quale sta a te riuscire a trovare uno spazio, senza eccedere, in armonia con gli altri. È stato veramente un maestro. Subito dopo il lavoro con Paolo Virzì è stato tutt’altra cosa. Paolo è un meraviglioso direttore di attori, con lui gli attori volano, Tutta la vita davanti è stato un corso accelerato di cinema. Poi ho anche esagerato, ho fatto tanti film, generi diversi, ma ho pensato che fosse l’unico modo di imparare a stare davanti alla macchina da presa».
Adesso la vedremo in almeno tre film nei prossimi mesi. L’ultimo che ha girato?
«Una storia sbagliata di Gianluca Tavarelli. Ha scritto il personaggio di Stefania, la protagonista, pensando a me, ed è un privilegio raro per un’attrice. È una storia sul Sud del mondo, ambientata a Gela e a Nassiriya. Stefania è un’infermiera, lavora all’ospedale di Gela, una città che vive una situazione tipo Ilva, la fabbrica ha portato occasioni di lavoro, ma il prezzo è stato la salute degli abitanti, c’è un altissimo tasso di malformazioni prenatali e di forme tumorali. Stefania va in missione a Nassiriya e il film racconta un parallelo tra due guerre, quella delle armi e quella per la sopravvivenza e in entrambe sono le donne protagoniste della vita che continua.
Un messaggio potentissimo. Per Stefania è anche un percorso dalla mentalità chiusa e piena di pregiudizi all’apertura e all’accettazione degli altri. Per Nassiriya il set era in Tunisia. Anche per me è stata un’esperienza importante, ho avvertito la sensazione di un paese vicinissimo a noi, abbiamo le stesse radici, veniamo dalla stessa cultura».
In Un ragazzo favoloso di Mario Martone lei è Paolina Leopardi. Come la descriverebbe?
«Una ragazza intelligente, colta, il padre le aveva dato la possibilità di studiare come ai maschi, è stata una traduttrice dal francese, ma non ha mai avuto la possibilità di uscire dalla gabbia di Recanati, vedeva il mondo attraverso i libri. Il film racconta il rapporto affettivo con il fratello Giacomo, il poeta, molto forte. Giocavano all’Africa o al Medio Oriente inventandosi storie e luoghi dalle letture, usando l’immaginazione. Era un gioco anche fisico, spinte, pizzicotti, finte risse. Quando Giacomo se n’è andato, le ha scritto lettere da ogni luogo, per lei era come vedere il mondo attraverso gli occhi di lui. La morte del fratello ha significato anche la fine di Paolina. Girare nella casa e nella biblioteca di Leopardi è stato molto emozionante».
Il primo film che uscirà sarà La sedia della felicità. Che ricordo ha di Carlo Mazzacurati?
«Ci vuole una grande intelligenza e una grande profondità per arrivare alla leggerezza di Carlo. La sedia della fortuna per me è un film jazz, perché Carlo aveva una struttura molto precisa però ti dava la possibilità dell’assolo. Era come la sensazione di libertà di quando ascolti il jazz. Era un regista tecnicamente preparatissimo, con uno stile potente e la curiosità di cercare sempre nuove storie, nuovi attori, pensi a quanti hanno lavorato con lui. E lavorando con lui entravi nel suo mondo, un mondo anche infantile, nel senso bello del termine, sono rare le persone nel mondo del cinema che conservano la capacità di stupirsi di un bambino, oltre all’interesse sincero per gli altri. Quando gli parlavi ti guardava negli occhi, aveva davvero curiosità per te, per conoscerti. Amava le persone come amava i suoi personaggi, anche i disgraziati, i mascalzoni, lui li raccontava con affetto e li faceva amare dal pubblico. Lavorare con lui è stata una grande lezione di cinema, ma ancora più grande è stata la lezione di vita».