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 2014  marzo 23 Domenica calendario

LOI, UN ANGELO AL CINEMA

Il poeta Franco Loi se la ricorda an­cora, quella maratona cinematogra­fica di quasi settant’anni fa. «Erano i primi tempi del dopoguerra – rac­conta – e c’era questo mio amico, che grazie al padre aveva una tessera va­lida per due persone. Si entrava gra­tis in tutte le sale, senza alcuna limitazione. Una domenica abbiamo cominciato alla mattina con La terra trema di Visconti, nel pomeriggio siamo andati a vedere una com­media con Macario e poi, la sera, abbiamo provato a guardare un’americanata con E­sther Williams. Ma non ci piaceva per nien­te, allora siamo usciti e abbiamo cambiato cinema. Un giallo con Humphrey Bogart, bellissimo. Se vuole controllo sul taccuino e le dico il titolo esatto...».
Del tour de force di quegli anni (tra il 1945 e il 1948 gli sono passati sotto gli occhi otto­cento film) Loi conserva ancora l’elenco. Af­fidato al famoso taccuino, appunto, che può essere considerato un simbolo del rappor­to che lega questo autore al cinema. A rendere an­cora più stretto il legame provvede ora Il viaggio del poeta , il lungometraggio di Giovanni Martinelli che inizia in questi giorni il suo cammino nelle sale e di cui Loi (che ha da poco compiuto 84 anni) è pro­tagonista assoluto. Nel ruolo di se stesso, per di più. «All’origine del film c’è un mio libro, L’Angel, ma questa non è una semplice trasposizione cinema­tografica. Il regista ha immaginato un viaggio ori­ginale attraverso i luoghi di quel mio romanzo in versi, che sono in effetti i miei stessi luoghi».

Quali?
«Genova, dove sono nato nel 1930. Milano, dove mi sono formato e ho vissuto gran parte della mia e­sistenza. E Colorno, la cittadi­na in provincia di Parma di cui era originaria mia madre e dove anche mio padre, che veniva dalla Sardegna, si sentiva a casa. Conosco bene questi po­sti, ma tornarci o comunque attraversarli per le ri­prese è stata una scoperta».

Anche per quanto riguarda la sua Milano?
«Anche per Milano, certamente. A piazza Fontana, per esempio, siamo arrivati viaggiando in tram. Ri­vedendo la scena, mi sono stupito di come la sede della Banca dell’Agricoltura vi appaia solo di scor­cio. Prima di allora, per me, la piazza stava tutta lì, nel posto in cui il 12 dicembre 1969 è esplosa la bomba. Il cinema ha questa funzione, tra l’altro: aiuta a vedere la realtà da un’altra prospettiva. Mi è capitato anche a Genova, sa? Caruggi che si a­prono come varchi nel tempo, il mare che ap­pare all’improvviso dietro un angolo».

Da come ne parla sembra che il cine­ma abbia qualcosa in comune con la poesia.
«Provo a partire dalla mia e­sperienza. Fra i quindici e i diciott’anni, nel periodo in cui guardavo tutti quei film, mi ero anche messo a leggere con enorme impegno. Studiavo, studiavo tantissimo, in spe­cial modo i grandi filosofi dell’Otto­cento. In quei libro­ni trovavo il lin­guaggio di un reali­smo severo, rispetto al quale il cinema a­veva il fascino di una voce ascoltata in sogno. Non è un caso, forse, che subito dopo i film (non so­lo americani, sia chiaro: ho amato moltissimo i russi, su tutti Ejzenstejn, La corazzata Potëmkin), sia nata la mia passio­ne per Shakespeare».

Il cinema ha influito sulla sua poesia?
«Questo non posso dirlo io, sem­mai sono gli altri che dovrebbero valutarlo. Ho cominciato tardi a scrivere versi, attorno ai trenta­cinque anni, ma con un atteggia­mento che da allora non è mia cambiato: abbandonarmi alla parte inconscia del mio essere, e­vitando di rinchiudermi in scuo­le o sistemi. In questo la poesia è simile al sogno. A volte il senso di quelle visioni notturne ti sembra chiarissimo, altre volte c’è biso­gno di una lunga riflessione per avvicinarsi a un’ombra di signifi­cato. Ma non sei mai tu che deci­di che cosa sognare. C’è sempre qualcos’altro che, come direbbe Dante, ti “ditta dentro”. Ora, con­siderato che anche il cinema è im­parentato con il sogno, potrebbe essere che un film aiuti a capire un po’ di più la poesia».

Si riferisce all’«Angel»?
«È un libro singolare, un romanzo in versi in cui sono confluite tante suggestioni linguistiche, tan­ti spunti anche autobiografici. La mia idea era di raccontare la vita di un italiano medio che si muo­ve lungo i momenti cruciali della nostra storia con la convinzione di essere un angelo. La prima par­te uscì nel 1981, nel 1994 Mondadori pubblicò quel­la che in quel momento era la versione completa, però è un testo al quale non ho mai messo la pa­rola “fine”. Nei miei libri successivi c’è sempre sta­ta una sezione intitolata L’Angel , come se avessi ancora bisogno di aggiungere qualcosa».

Ma nel film un finale c’è?
«In un certo senso sì. Nell’ultima scena l’Angelo e io saliamo una scalinata, molto simile a quella del Cimitero di Staglieno, a Genova. Era un posto di cui da bambino avevo una gran paura: temevo che da quella città dei morti non si riuscisse più a uscire. Ma la macchina da presa riesce a cogliere una pro­spettiva insospettata. Ci si accorge che anche da Staglieno si vede il cielo, è possibile alzare lo sguar­do verso le stelle. Del resto, se uno ci pensa, è da lì che vengono gli angeli».