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 2014  marzo 22 Sabato calendario

LA DANNAZIONE DEL PORTIERE: SVENTURATO E UN PO’ MASCALZONE


L’ uomo di Vitruvio, celebre disegno di Leonardo da Vinci e simbolo dell’armonia, è inscritto in un cerchio. Senza fine, senza discontinuità, il flusso prodotto dalla circonferenza finisce per proteggerlo, addirittura per liberarlo, anche se lampantemente lo imprigiona. Nelle sue pose sovrapposte (gambe larghe e braccia larghe, gambe strette e braccia in alto, gambe strette e braccia larghe, gambe larghe e braccia in alto), egli rivendica il controllo dello spazio e delle proporzioni, creando una bolla protettiva che appare impenetrabile. Il disordine esterno si ferma a quella bolla, la cui energia lo scioglie come neve al sole. Nulla di male può accadergli che non sia da lui previsto e gestito. Il suo stato d’animo è la calma, il suo destino la perfezione. Eppure quella posizione a braccia larghe ne richiama un’altra tutt’altro che perfetta e quieta, che i nostri occhi hanno imparato a registrare: la posizione che certi portieri assumono sulla riga di porta quando l’avversario si appresta a battere un rigore. Aumentando il volume del corpo, spiegando le ali come un albatro, essi intendono intimidire colui che dovrà calciare il penalty, cercando di riprodurre attorno a sé l’inviolabile perfezione leonardiana. E tuttavia quel loro gesto sottende l’esatto contrario, e denuncia tutta la loro fragilità. Il problema è geometrico: non sono inscritti in un cerchio, ma spersi al centro di un rettangolo; e quel rettangolo verticale — la porta — non è che il ribaltamento in altezza di altri rettangoli orizzontali — l’area di porta, l’area di rigore, il campo stesso — che descrivono la loro debolezza e simboleggiano la loro dannazione.
Portieri «normali», del resto, non ne esistono. È esistito Zoff, che della normalità è stato il campione indeformabile (come la barra di platino-iridio conservata a Sevres è il campione del metro lineare), ma proprio per questo era il più anormale di tutti. In realtà i portieri tendono ad allontanarsi il più possibile da quel campione, separandosi in due opposte categorie: quella degli sventurati e quella delle carogne. In questo libro sono raccolte le gesta e i destini dei portieri sventurati. Che si tratti di Willie «Fatty» Foulke, portiere-ciccione dello Sheffield United e del Chelsea morto di cirrosi a 42 anni, di Romano Cazzaniga, secondo di Castellini nel Torino di Gigi Radice, precipitato dalla finestra dell’albergo mentre faceva i gavettoni ai suoi compagni, o di Helmut Duckadam, che vinse da solo la Coppa dei Campioni del 1986 parando quattro rigori al Barcellona per finire immediatamente nelle grinfie del figlio psicopatico di Nicolae Ceausescu, due sono le costanti che accompagnano gli eroi di questo libro: la prima è la fatalità, o la lunga successione di fatalità, di actes manqués lacaniani, di lapsus freudiani, di scarogne, di tare e di sbagli sbagliati che ha fatto di loro dei perdenti anche quando vincevano; la seconda è per l’appunto l’anomalia del loro ruolo, vera fucina di nevrosi e irrequietudine, che rende impossibile ai portieri avere una carriera (e spesso anche una vita) «normale». Pensiamoci.
Tecnicamente sei un calciatore, ma i piedi sono l’ultima parte del corpo che devi saper usare; i tuoi compagni corrono e scaricano l’adrenalina per il campo, tu sei confinato in un recinto e puoi solo guardarli con la mano a visierina sulla fronte; puoi prendere il pallone con le mani mentre per loro è proibito, ma se lo fai fuori dall’area di rigore sei espulso, mentre loro vengono solo ammoniti; devi sempre buttarti per terra, e proprio nel pezzetto di campo in cui l’erba non cresce, per colpa delle tue stesse scarpe, dei tuoi stessi tacchetti; non puoi commettere sbagli, perché la conseguenza del tuo sbaglio è quasi sempre un gol; non puoi picchiare l’avversario, pestargli il piede d’appoggio, lasciargli andare una legnata sui parastinchi, caricarlo, spintonarlo o sgambettarlo come fanno tutti i tuoi compagni perché se lo fai tu è calcio di rigore; non puoi nemmeno tifare fino in fondo per la tua squadra, perché se gli avversari non tirano in porta non puoi dimostrare il tuo valore. Per contro, hai un sacco di tempo per pensare ai tuoi problemi con tua moglie, con la dirigenza, coi tifosi, e così facendo rischi di continuo di perdere la concentrazione. I rettangoli ti impongono la loro legge: in quello della porta la palla non deve mai entrare, in quello dell’area di porta la palla devi prenderla sempre tu, da quello dell’area di rigore non puoi uscire. E questo sempre, ogni santo giorno, per tutta la stagione, per tutta la carriera, negli allenamenti e nelle partite, nella buona e nella cattiva sorte. Fare il portiere è un matrimonio infelice.
Da qui deriva il luogo comune che i portieri sono tutti pazzi; e non è solo un luogo comune, è anche la verità. Che si vendano le partite come Giuseppe Moro o che si lascino sfuggire il pallone che vale la Coppa del Mondo come Moacir Barbosa, che provochino la reazione rabbiosa degli avversari con una bravata come Amadeo Carrizo o che vengano folgorati da un fulmine come Jongbloed, nel loro destino è sempre custodita una bomba a orologeria che a un certo punto, un certo giorno, esplode e li spazza via. A nulla saranno valsi i lunghi anni di allenamento, di autodisciplina, di affidabilità, di sforzo di essere come gli altri: il portiere è pazzo, e prima o poi la pazzia gli presenta il conto. Ma se la pazzia è una, come ho già detto le vie di fuga sono due: diventare eroi di sventura o diventare figli di puttana. Fausto Bagattini qui ci descrive la prima categoria, la più poetica, la più struggente, con la pietas necessaria ma anche con la dovuta consapevolezza che per quanto possa contenere destini assolutamente atroci, il calcio è uno sport di squadra, anzi è proprio uno sport collettivo, e la sua storia non è una storia di individui ma una storia di massa. La galleria che ne deriva è al tempo stesso compatta e disarticolata, dove ognuno percorre una strada diversa per arrivare sempre allo stesso punto — e cioè: la disgrazia. Un amaro repertorio di modi differenti per andare in rovina.
Resta da raccontare anche l’altra categoria, quella degli stronzi, dei bastardi, dei figli di troia — non meno ricca, non meno letteraria, che mi auguro sarà oggetto di un prossimo libro di questo scrittore: ma intanto già qui salta agli occhi ciò che nella nostra mente di appassionati una voce sussurra da sempre, e cioè che tra tutti gli sport estremi, oltre il free-climbing e il bungee-jumping e lo zorbing, superati l’automobilismo e il paracadutismo e il torrentismo, più in là dell’Ironman del Motocross Freestyle e del Rugby subacqueo, il più estremo di tutti è infilarsi un paio di guanti e mettersi in porta mentre gli altri giocano a pallone.