Paolo Cucchiarelli, Ansa 23/3/2014 (due articoli, stessa firma), 23 marzo 2014
CASO MORO PER SEMPRE
Gli ingredienti di un giallo ci sono tutti: la confessione post mortem, l’indagine di un poliziotto, la distruzione delle prove e la magistratura - quella romana - che comunque indaga: fine. Ma non è così se si parla del caso Moro. "Tutto è partito da una lettera anonima scritta dall’uomo che era sul sellino posteriore dell’Honda in via Fani. Diede riscontri per arrivare all’altro, quello che guidava la moto".
Enrico Rossi, ispettore di Ps in pensione, racconta all’ANSA la sua inchiesta passeggiando sulle colline di Torino, a due passi da Superga. Spiega con puntiglio e gentilezza sabauda che, secondo colui che inviò la lettera anonima - che si qualificava come uno dei due sulla moto - gli agenti avevano il compito di "proteggere le Br da disturbi di qualsiasi genere. Dipendevano dal colonnello del Sismi Camillo Guglielmi che era in via Fani la mattina del 16 marzo 1978". Tutta l’inchiesta è nata da una lettera anonima inviata a un quotidiano nell’ottobre 2009.
Eccola: "Quando riceverete questa lettera, saranno trascorsi almeno sei mesi dalla mia morte come da mie disposizioni. Ho passato la vita nel rimorso di quanto ho fatto e di quanto non ho fatto e cioè raccontare la verità su certi fatti. Ora è tardi,il cancro mi sta divorando e non voglio che mio figlio sappia. La mattina del 16 marzo ero su di una moto e operavo alle dipendenze del colonnello Guglielmi, con me alla guida della moto un altro uomo proveniente come me da Torino; il nostro compito era quello di proteggere le Br nella loro azione da disturbi di qualsiasi genere. Io non credo che voi giornalisti non sappiate come veramente andarono le cose ma nel caso fosse così, provate a parlare con chi guidava la moto, è possibile che voglia farlo, da allora non ci siamo più parlati, anche se ho avuto modo di incontralo ultimamente...".
L’anonimo forniva elementi per rintracciare il guidatore della Honda: il nome di una donna e di un negozio di Torino. "Tanto io posso dire, sta a voi decidere se saperne di più". Il quotidiano all’epoca passò alla questura la lettera per i dovuti riscontri. A Rossi, che ha sempre lavorato nell’antiterrorismo, la lettera arriva sul tavolo nel febbraio 2011 in modo casuale. Non è protocollata e non sono stati fatti accertamenti, ma ci vuole poco a identificare il presunto guidatore della Honda di via Fani che secondo un testimone ritenuto molto credibile era a volto scoperto e aveva tratti del viso che ricordavano Eduardo De Filippo.
"Non so bene perché ma questa inchiesta trova subito ostacoli. Chiedo di fare riscontri ma non sono accontentato. L’uomo su cui indago ha, regolarmente registrate, due pistole. Una è molto particolare: una Drulov cecoslovacca; pistola da specialisti a canna molto lunga, di precisione. Assomiglia ad una mitraglietta". "Per non lasciare cadere tutto nel solito nulla predispongo un controllo amministrativo nell’abitazione. L’uomo si è separato legalmente. Parlo con lui al telefono e mi indica dove è la prima pistola, una Beretta, ma nulla mi dice della seconda. Allora l’accertamento amministrativo diventa perquisizione e in cantina, in un armadio, ricordo, trovammo la pistola Drulov poggiata accanto o sopra una copia dell’edizione straordinaria cellofanata de La Repubblica del 16 marzo". Il titolo era: "Aldo Moro rapito dalle Brigate Rosse".
"Nel frattempo - continua Rossi - erano arrivati i carabinieri non si sa bene chiamati da chi. Consegno le due pistole e gli oggetti sequestrati alla Digos di Cuneo. Chiedo subito di interrogare l’uomo che all’epoca vive in Toscana. Autorizzazione negata. Chiedo di periziare le due pistole. Negato. Ho qualche ’incomprensione’ nel mio ufficio. La situazione si ’congela’ e non si fa nessun altro passo, che io sappia".
"Capisco che è meglio che me ne vada e nell’agosto del 2012 vado in pensione a 56 anni. Tempo dopo, una ’voce amica’ di cui mi fido - dice l’ex poliziotto - m’informa che l’uomo su cui indagavo è morto dopo l’estate del 2012 e che le due armi sono state distrutte senza effettuare le perizie balistiche che avevo consigliato di fare. Ho aspettato mesi. I fatti sono più importanti delle persone e per questo decido di raccontare l’inchiesta ’incompiuta’".
Rossi ricorda, sequestrò una foto, che quell’uomo aveva un viso allungato, simile a quello di De Filippo: "Sì, gli assomigliava". Fin qui l’ex ispettore, che rimarca di parlare senza alcun risentimento personale ma solo perché "quella è stata un’occasione persa. E bisogna parlare per rispetto dei morti".
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Il signore su cui indagava Rossi è effettivamente morto - ha accertato l’ANSA - nel settembre del 2012 in Toscana. Le pistole sembrerebbero essere state effettivamente distrutte, ma il fascicolo che contiene tutta la storia dei due presunti passeggeri della Honda è stato trasferito da Torino a Roma dove è tuttora aperta un’inchiesta della magistratura sul caso Moro.
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Per una volta sono tutti d’accordo: magistrati e Br. La Honda blu presente in via Fani il 16 marzo del 1978 è un mistero. I capi brigatisti hanno sempre negato che a bordo ci fossero due loro uomini, ma da quella moto si spararono - sicuramente - gli unici colpi verso un ’civile’ presente sulla scena del rapimento, l’ingegner Alessandro Marini, uno dei testimoni più citati dalla sentenza del primo processo Moro.
Mario Moretti e Valerio Morucci sono stati sempre chiarissimi su quella moto blu di grossa cilindrata: ’Non è certamente roba nostra’. L’ingegner Marini si salvò solo perché cadde di lato quando una raffica partita da un piccolo mitra fu scaricata contro di lui ’ad altezza d’uomo’ proprio da uno dei due che viaggiavano sulla moto. I proiettili frantumarono il parabrezza del suo motorino con il quale l’ingegnere cercava di ’passare’ all’incrocio tra via Fani e via Stresa. Marini fu interrogato alle 10.15 del 16 marzo.
Il conducente della moto - disse - era un giovane di 20-22 anni, molto magro, con il viso lungo e le guance scavate, che a Marini ricordò "l’immagine dell’attore Edoardo De Filippo". Dietro, sulla moto blu, un uomo con il passamontagna scuro che esplose colpi di mitra nella direzione dell’ingegnere perdendo poi il caricatore che cadde dal piccolo mitra durante la fuga. La sera a casa Marini arrivò la prima telefonata di minacce: ’Devi stare zitto’. Per giorni le intimidazioni continuarono. Si rafforzarono quando tornò a testimoniare ad aprile e giugno. Poi l’ingegnere capì l’aria, si trasferì in Svizzera per tre anni e cambiò lavoro.
Il caricatore cadde certamente dalla moto e Marini, dicono le carte, lo fece ritrovare ma questo non sembra essere stato messo a raffronto con i tre mitra (ritrovati in covi Br) che spararono in via Fani (ce ne è anche un quarto, mai ritrovato). Di certo da quella moto si sparò per uccidere Marini, tanto che i brigatisti sono stati condannati in via definitiva anche per il tentato omicidio dell’ingegnere. Marini d’altra parte confermò più volte durante i processi il suo racconto e consegnò il parabrezza trapassato dai proiettili.
A terra in via Fani rimasero quindi anche i proiettili sparati dal piccolo mitra ma le perizie sembrano tacere su questo particolare. Sarebbe questa l’ottava arma usata in via Fani: 4 mitra, 2 pistole, oltre alla pistola dell’agente Zizzi, che scortava Moro, e quella in mano all’uomo della Honda: il piccolo mitra. Su chi fossero i due sulla Honda tante ipotesi finora: due autonomi romani in ’cerca di gloria’ (ma perché allora sparare per uccidere?); due uomini della ’ndrangheta (ma non si è andati oltre l’ipotesi); o, come ha ventilato anche il pm romano Antonio Marini che ha indagato a lungo sulla vicenda, uomini dei servizi segreti o della malavita.
I Br negano ma, ha detto il magistrato, "una spiegazione deve pur esserci. Io vedo un solo motivo: che si tratti di un argomento inconfessabile". Uomini della malavita o dei servizi? "Allora tutto si spiegherebbe". Certo che quella mattina a pochi passi da via Fani c’era, per sua stessa ammissione, Camillo Guglielmi, indicato alternativamente come addestratore di Gladio o uomo dei servizi segreti, invitato a pranzo alle 9.15 di mattina da un suo collega.
E Guglielmi è proprio l’uomo dei servizi chiamato in causa nella lettera anonima che ha dato il via a Torino agli accertamenti sui due uomini a bordo Honda, poi trasferiti a Roma. A Guglielmi si è addebitata anche la guida di un gruppo clandestino del Sismi incaricato di ’gestire’ il rapimento Moro secondo un’inchiesta che è anche nell’archivio della Commissione stragi, in Parlamento