Aldo Cazzullo, Corriere della Sera 22/3/2014, 22 marzo 2014
«COINVOLGERÒ I PRIVATI NELLA CULTURA L’INFARTO? MI HA FATTO CAPIRE I VALORI»
Dario Franceschini, che cosa le è successo?
«Sabato 8 marzo ero a Palmanova, a salutare i volontari che puliscono le mura. È una città per me fortemente simbolica: Zaccagnini tenne qui il suo più grande comizio da segretario della Dc, davanti a centomila giovani. Tutto andava per il meglio: ero stato a Ferrara per la mostra di Matisse, poi a Venezia alla sede della Biennale. D’un tratto ho sentito un forte dolore alla schiena. Mi hanno portato in ospedale, prima a Palmanova, poi a Udine».
Infarto?
«Sì. Sono stato ricoverato una settimana. Poi una settimana di riposo. Ora sono pronto, gradualmente, a rientrare. Ho avuto modo di pensare, di riflettere, di rileggere la gerarchia della vita. Mi sono reso conto che spesso mettiamo in coda i valori più importanti: gli affetti; il tempo per sé. La cosa paradossale è che nella mia vita politica ho fatto cose diverse da quelle che avrei scelto. Ora mi è capitata un’esperienza che mi appassiona molto: fare il ministro della Cultura e del Turismo. Si vede che proprio adesso mi è arrivato il conto degli anni passati».
Le avevano offerto altri ministeri, come la Giustizia?
«Io volevo il più importante: la Cultura. Qualcuno ha ironizzato: “Vuoi andare a divertirti”. In passato questo è stato considerato un ministero di serie B. Grave errore».
Lei ha detto che la Cultura in Italia è il primo ministero economico. Cosa intende?
«Nel mondo globalizzato ogni Paese investe su ciò che lo rende competitivo: le materie prime, la manodopera a basso costo. Noi dobbiamo puntare sulla storia, l’arte, il talento, la bellezza, l’intelligenza, la creatività».
In passato l’Italia ha oscillato tra una destra che diceva “con la cultura non si mangia”, e una sinistra che diceva “giù le mani” di fronte all’ipotesi che il patrimonio potesse creare reddito, anche grazie all’intervento dei privati. Lei come si muoverà?
«La bussola è l’articolo 9 della Costituzione: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della nazione”. In due righe i padri costituenti hanno previsto sia la tutela sia la valorizzazione. Usciamo dalla semplificazione per cui da una parte ci si vorrebbe occupare solo della tutela, e dall’altra parte si vorrebbe privatizzare il patrimonio pubblico. Troviamo un meccanismo condiviso. La bellezza deve essere una condizione di crescita del Paese: non solo con il turismo, ma anche con la capacità di attrarre investimenti».
Che cosa intende?
«La parte alta della filiera produttiva, in cui conta di più l’intelligenza, si stabilisce volentieri là dov’è maggiore l’offerta culturale e la qualità della vita. L’Italia ha le caratteristiche per diventare il Paese più attraente al mondo».
Quale dovrebbe essere il ruolo dei privati?
«Dobbiamo aprire ai privati. Sia nella forma del mecenatismo, sia in quella della sponsorizzazione. Prendiamo Ercolano, che è a pochi chilometri da Pompei. La convenzione con la Packard ha creato un modello di integrazione pubblico-privato che ha avuto un grande successo. Sto lavorando perché diventi una convenzione-tipo. Individueremo venti siti, piccoli, medi e grandi, e chiederò a venti aziende, italiane e straniere, di farsene carico con un atto di liberalità, secondo le linee sperimentate della convenzione Ercolano. Non credo proprio che rifiuteranno».
La liberalità è nobile. Ma di solito i privati vogliono utili.
«Sia il mecenatismo, sia le sponsorizzazioni hanno un ritorno. Non sempre le aziende hanno trovato l’attenzione che meritavano. Impregilo dice di aver messo venti milioni per Pompei e di non aver mai avuto risposta. Anche il Kuwait ha fatto un’offerta ed è rimasta lì. Si può anche riflettere sulla possibilità di coinvolgere i privati nella gestione di un museo o di un monumento. Qui però occorre cautela: bisogna evitare che si speculi su un bene che appartiene a tutti. Non illudiamoci: il nostro patrimonio è talmente vasto che il ruolo pubblico sarà sempre insostituibile. Ma i privati devono essere coinvolti più di ora».
Non teme una reazione negativa dal vostro stesso mondo, dagli intellettuali della sinistra più intransigente?
«Ma noi non vogliamo svendere il nostro patrimonio; vogliamo salvarlo e valorizzarlo. Ad esempio, le stesse operazioni di marketing pensate per le mostre si devono fare anche per rilanciare musei, aree archeologiche, beni monumentali poco conosciuti. A Ferrara il museo Boldini ha diecimila visitatori l’anno. Il Comune ha avuto l’idea di fare a cento metri di distanza, a Palazzo dei Diamanti, una mostra su Boldini: centomila visitatori in tre mesi».
Franco Tatò, intervistato da Paolo Conti, ha indicato nei sovrintendenti un fattore di conservazione.
«Non generalizziamo.Nell’ambito della spending review dovrò ridurre 32 posti di dirigenti di seconda fascia. Quella sarà la prima occasione per iniziare una riorganizzazione e razionalizzazione del sistema delle sovrintendenze; che però, non dimentichiamolo, applicano l’articolo 9. Penso anche a una nuova direzione generale per l’educazione alla cultura. Dobbiamo occuparci di più anche di arte contemporanea e architettura, in vista di un grande progetto di riqualificazione delle periferie urbane».
Pompei è una vergogna nazionale. Come conta di porre rimedio?
«A Pompei vengono al pettine nodi irrisolti da decenni. Il mio predecessore Bray ha fatto due nomine che condivido: il generale Nistri e il sovrintendente Osanna. Vedremo di spendere bene i fondi europei, sapendo che su Pompei sono puntati i riflettori di tutto il mondo, con il rischio anche di esagerazioni: l’altro giorno è stato scoperto il cedimento di un tetto di calcestruzzo costruito negli Anni 80, e pure questo rischia di diventare uno scandalo…».
Il Louvre ha più visitatori di tutti i nostri musei statali messi assieme. Eravamo il Paese con più turisti al mondo; siamo solo quinti, dietro Francia, Stati Uniti, Spagna e Cina.
«Ma siamo il Paese più “desiderato”. Digitalizzeremo l’offerta: l’80% delle prenotazioni si fa online; siamo in grave ritardo. Lavoreremo di più con la Cina, l’India, il Brasile, gli altri Paesi emergenti. E riporteremo al governo e a un Enit riformato la promozione da fare all’estero, cambiando il titolo V. Affidarla alle Regioni è stato un errore».
Anche lei ha parlato di cultura come petrolio d’Italia…
«È vero. Ma è un’espressione che non userò più. Il petrolio è un bene che si consuma. La cultura semmai è il nostro ossigeno. Per le menti, e per la crescita dell’economia».
Come valuta l’esordio di Renzi a Palazzo Chigi?
«Siamo un Paese conservatore, pigro, spaventato dai cambiamenti. A parole tutti vogliono cambiare, ma poi hanno paura di farlo davvero. Matteo è uomo di rottura, per età e per carattere. Il suo governo è il punto di rottura di incrostazioni e timori antichi. Dobbiamo dargli tutti sostegno convinto e tempo per lavorare».