Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  marzo 24 Lunedì calendario

Provato, non rassegnato. Meno spavaldo, ma sempre proiettato su stesso, perché, ammette, «il dna non lo puoi cambiare»

Provato, non rassegnato. Meno spavaldo, ma sempre proiettato su stesso, perché, ammette, «il dna non lo puoi cambiare». In bilico tra rabbia ed espiazione, dopo quattordici mesi di reclusione l’ex re dei paparazzi Fabrizio Corona fa i conti con se stesso e nella sua prima intervista dal carcere di Opera risponde per iscritto ad alcune domande. Condannato a un totale obiettivamente spropositato di quattordici anni e due mesi, con i suoi avvocati Gianluca Maris e Ivano Chiesa ha ottenuto la «continuazione» tra le due sentenze di Vallettopoli (diciassette mesi a Milano, cinque anni a Torino) e con essa una sostanziosa riduzione del cumulo che, in attesa della definizione di altre vicende e detratto quanto già scontato, è sceso a sei anni e undici mesi. Come sta vivendo il carcere? «Il carcere mi ha salvalo la vita. Mi ha fatto tornare con i piedi per terra. È riuscito a fermare un treno in corsa perenne da anni che ultimamente aveva perso sogni, equilibri e alzato troppo l’asticella del limite. Mi ha fatto scoprire il senso della realtà, insegnato a star bene con me stesso e messo nelle condizioni di proseguire nel migliore dei modi lungo la strada della vita quando tornerò libero». Corona non più oltre i limiti? «Sono sempre lo stesso, il dna non lo puoi cambiare. Però sono migliorato, in tante cose. Sono più vero, più lucido e più uomo perché ho visto gente soffrire e morire, ho visto il tormento, la paura, lo sconforto, la vera solitudine e l’abbandono, ho capito cosa sono la cattiveria e la vera violenza. Tutto questo mi ha reso più forte». Pensa ancora di essere vittima di alcuni magistrati? «Nei miei confronti non c’è mai stata parità di giudizio: o scandalosamente innocente o dannatamente colpevole. È sempre stata solo una questione di simpatia o preconcetto, pregiudizio. Qui mi sono reso conto ancora di più dell’ipocrisia della giustizia italiana, che non è egualitaria. Assassini colpevoli condannati a 12 anni e solo presunti condannati all’ergastolo, anni di pena dati come fossero noccioline in carceri dove il concetto di rieducazione non esiste, dove le condizioni di vita, di igiene, di convivenza sono disumane e vergognose». Ora ha ottenuto una notevole riduzione della pena. «Quando ho presentato l’istanza di messa in continuazione poteva capitarmi un giudice a cui stavo simpatico o uno che mi odiava. Dovevo solo sperare di trovare un giudice che avesse il coraggio di guardare gli atti, studiarli e fare giustizia senza timore di ferire i benpensanti e i finti moralisti. Un giudice capace di prendersi delle responsabilità, onesto, vero, giusto. L’ho trovato. Questo giro, finalmente, mi è andata bene. Ricordo lunedì 10 febbraio. Scendevo le scale per andare in sala avvocati come un robot. Quando si è aperta la porta ho guardato gli avvocati negli occhi. Mi hanno fatto un grande sorriso e ho ripreso a respirare». Qual è stato il suo errore peggiore? «Rifiutare un patteggiamento ad otto mesi per Vallettopoli, un’indagine assurda, ma nessuno ha avuto mai il coraggio di ammetterlo, a causa della quale ho preso tre condanne, compresi i 3 anni e 10 mesi per bancarotta, dopo aver risarcito il danno. Da incensurato fui arrestato e portato a Potenza, feci un mese di carcere duro con quel Pepe Iannicelli, boss delle ‘ndrine bruciato vivo due mesi fa con la fidanzata e quell’angelo di suo nipote di soli 3 anni. È normale che dopo 4 mesi di detenzione preventiva sono uscito arrabbiato». E ne ha fatte di tutti i colori. «Ce l’avevo con il mondo intero, mi sono perso e ho commesso un sacco di errori». Cosa fa? «Faccio moltissimo. Quando ero a Busto Arsizio ho inventato un portale innovativo per i detenuti, ho raccolto circa 70 mila euro per loro, ho scritto un libro, ho lavorato come portavitto e sono riuscito dal carcere a mandare avanti la mia azienda senza farla fallire e mi sono mantenuto in forma allenandomi per almeno un’ora al giorno. Ho sempre tenuto vivo il cervello e ho ripulito l’anima». Con la libertà, cosa le manca? «Mi manca tantissimo mio figlio e mi mancano da morire le emozioni quotidiane che la vita ti dà. Qui, in parte, è come essere morti». La prima cosa che farà al primo permesso? «Vado a scuola a prendere mio figlio. È un anno che mi immagino questa scena, e so che solo quando lo vedrò uscire mi renderò conto di quante cose ho buttato nella mia vita, quante cose ho veramente perso». Giuseppe Guastella gguastella@corriere.it