Gianni Mura la Repubblica 24/3/2014, 24 marzo 2014
TORINO
Sul grande terrazzo, al settimo piano, tra fiori, piantine di basilico, rampicanti, c’è un tubo di gomma collegato con il rubinetto dell’acquaio, e mi arriva addosso un flash, una foto di Lido Vieri di quando giocava nell’Inter. E si faceva una doccia con un tubo di gomma, solo che intorno c’era la neve. Vieri guarda me che guardo il tubo e ride.
«Sì, anche adesso che vado per i 75. E sa perché? Perché quand’ero piccolo in casa non avevamo l’acqua calda e io mi sono abituato a quella fredda, diciamo che me la sono fatta piacere per necessità, poi mi sono abituato e avanti così».
Vieri nasce a Piombino, ma i genitori erano elbani, di Portoferraio. «Mio padre faceva il pescatore. Poi è saltato fuori un posto alle ferrovie e la famiglia ha traslocato sulla terraferma. Io sono diventato portiere per caso, il mio sogno era andare per mare. Quand’è arrivata l’offerta del Torino avevo già tutte le carte in regola per imbarcarmi come mozzo su un mercantile che da Genova andava in Brasile. Il pallone era un divertimento, un gioco. Non pensavo di poterci campare. Spesso giocavo il primo tempo da attaccante, per fare gol, e il secondo da portiere, per difendere il vantaggio. La prima squadra è stata a Venturina, 13 km a piedi all’andata e 13 al ritorno. Lì c’era e c’è ancora un ristorante famoso, da Otello. Sull’Aurelia, si fermavano i tir come le macchine di lusso. Specialità cinghiale alla maremmana, ma anche pesce. Lì un bel giorno si fermò a mangiare il dottor Lievore, che curava il settore giovanile del Toro. E lì per caso c’era a mangiare anche il dottor Biagi, un farmacista, il mio presidente, e mi segnalò».
Convocato per un provino, viene preso.
«Partii diviso dentro: cominciava un’avventura ma lontana dal mare, quello l’avevo perso. Erano passati pochi anni da Superga, il Toro stava cercando di ricostruirsi. La società pensava al mangiare e al dormire, per i primi due anni ho preso mille lire a settimana. La metà la mandavo a casa, per il resto m’arrangiavo. Un biglietto del cinema costava 80 lire. La domenica andavo allo stadio gratis. Il nostro portiere era Lovati, quello della Juve di Viola. Due buoni portieri. Anch’io ero un giovane portiere allo stato brado, tutto istinto. Allasio mi fece esordire in A, poi mi prestarono al Vigevano in B perché facessi esperienza. Ci andai con Sergio Castelletti, il terzino biondo che poi finì alla Fiorentina. Povero Sergio, era di Casale, è morto anche lui per colpa dell’amianto».
Una volta i portieri si dividevano in due categorie: freddi e caldi. Freddi erano Jascin, Giuliano Sarti, Cudicini, Zoff. Caldi Moro, Ghezzi e Albertosi. Caldissimo Vieri.
«Come temperamento sì, ero fumino, e mi sono preso le mie belle squalifiche. Ma il bello del ruolo, il lato romantico se vogliamo, era nella sua diversità. A me piaceva uscire di porta e arpionare il pallone con una mano sola, fin sul dischetto del rigore uscivo per respingere di pugno. E allora era regola che ogni pallone nell’area piccola fosse del portiere. Adesso vedo che molti hanno la catena corta ma, soprattutto, che pochissimi cercano di bloccare il pallone. Quando finalmente ho avuto un preparatore, la sua domanda più frequente era: perché non l’hai bloccata? E, in caso di respinta, sempre di lato, mai frontale. Oggi sembra che queste cose siano finite in soffitta. Sono cambiati i palloni, sono cambiate le regole non sempre in meglio. Io cancellerei quella che porta rigore ed espulsione sull’uscita del portiere: una volta gli attaccanti ti saltavano, per non farti e non farsi male, adesso ti vengono a cercare, fanno di tutto, per sbatterti addosso, e ci credo: hanno tutto da guadagnare, al massimo rischiano un giallo per simulazione».
Lei aveva il mito di Ghezzi, ho letto.
«Sì, il kamikaze. Ma mi piaceva molto anche Bepi Moro e uno che non è diventato famosissimo: Doriano Carlotti, un elbano, giocava nel Piombino ed è stato il primo dei miei idoli. Stavo dietro la sua porta. Era secco secco, non alto, un coraggio da leone nelle uscite. Quando qualche squadra di A bussava per Carlotti, il Piombino sparava cifre pazzesche e così non s’è mai mosso. Quando ha smesso ha aperto una macelleria».
Non si stupisce di vedere tanti portieri stranieri in serie A?
«È vero che da noi c’era una grande scuola, ma nulla dura in eterno, tutto cambia. Pensi al Brasile: per decenni so-
lo un grande portiere Gilmar, poi ci è toccato veder vincere un mondiale a Taffarel, uno che si tuffava di pancia e non di fianco, poi è arrivato Julio Cesar. A me piace anche Neto, della Fiorentina. In assoluto, degli stranieri, Handanovic. Quanto a noi, Buffon era e resta di un’altra categoria. Promette bene quel Perin, un po’ pazzo e per questo mi piace. Ma il ruolo è cambiato da quando i portieri hanno dovuto imparare a usare i piedi, diventando meno diversi, più uguali agli altri. Ho l’orgoglio di aver allenato, incoraggiato e sempre difeso un grande portiere: Luca Marchegiani. Certo se vedo le foto di quando giocavo io e di adesso
sembra passato un secolo. I guanti, per esempio. Non li ho usati per anni o al massimo quelli di lana se pioveva.
A mani nude sentivo di più il pallone, anche col freddo.
Poi sono arrivati quelli zigrinati, come le coperture delle racchette da ping pong, e adesso ci sono certi guanti che sembrano usciti dai laboratori della Nasa, ma non è il guanto che fa il portiere, e nemmeno la maglia rossa o gialla. Ai miei tempi, solo nera, o grigia. Colpiva di più la fantasia: se l’immagina se poteva esserci un ragno arancione, così come c’era il ragno nero, Jascin? Un grandissimo, ma non so perché gli preferivo Beara, lo jugoslavo ».
Tre squadre in tutta la carriera: Torino, Inter e Pistoiese: cosa le resta?
«Il Toro è stata la squadra della mia vita, ci sono arrivato ragazzino e ne sono uscito uomo. Dividevo la camera con Ferrini, eravamo due tipi di poche parole. Lui parlava con l’esempio, coi fatti. Mi sarebbe piaciuto avere una sola maglia nella vita. Quando Pianelli mi cedette all’Inter, era convinto di avermi fatto un regalo. Invece mi misi a piangere e spaccai a pugni la porta dello spogliatoio. Ai tifosi granata devo il soprannome: Pinza. Lo stesso di Bodoira, il portiere che aveva preceduto Bacigalupo. Un onore. All’Inter con Invernizzi vincemmo uno scudetto in rimonta ma mi sentivo in esilio, anche se l’ambiente era simpatico. Alla Pistoiese andai perché mi avvicinavo a casa e perché la Pistoiese mi garantiva lo stesso ingaggio dell’Inter.
Presidente era Melani, detto il Faraone. Anche lui aveva fatto soldi col petrolio. Volevamo un brasiliano, avevo chiesto Junior e arrivò Luis Silvio. Gran velocità, ma tirava in porta solo di piatto, anche da fuori area».
In Nazionale, solo 4 presenze.
«Posso dire la verità? Non m’importava nulla di giocare in Nazionale, e lo dicevo anche. Ho fatto tre partite e mezza, tre senza prendere gol: 1-0 in Turchia, 1-0 in Austria, 3-0 al Brasile. A Sofia subentro ad Albertosi sull’1-2 e becco il terzo. Sono campione d’Europa e vicecampione del mondo senza aver mai visto non dico il campo ma la panchina. Per me convocazioni, ritiri, trasferte di un mese mezzo, come in Messico, equivaleva a togliermi il mare. Avevo la barca già pronta per andare a pesca dei palamiti verso Montecristo e Pianosa. Bearzot insistette, era stato mio capitano, la mia chioccia direi. Avete già Albertosi e Zoff, che ci vengo a fare? Portate Pizzaballa, è uno tranquillo, magari gli fa anche piacere. A me no, anche perché non ho mai voluto saperne di giocare a carte, quindi mi portavo una valigia di libri e Settimana enigmistica
».
Anche con lei si poteva partire da una foto nel ritiro messicano. C’è Valcareggi tra due sorridenti Mazzola e Rivera e dietro si vede Vieri, su una sdraio, che sta
leggendo “La noia” di Moravia.
«Ne avevo anche altri, uno di Ambrogio Fogar sul suo giro del mondo in barca, altri d’argomento marinaro. Leggevo molto, avevo imparato a memoria anche qualche poesia di Garcia Lorca. Poi Fogar l’ho conosciuto di persona, e anche Jacques Mayol che s’era sistemato all’Elba, a Capoliveri. Prima di ogni immersione sgranocchiava due teste d’aglio, diceva che era il suo segreto. Ma il suo segreto vero è perché si sia appeso a una trave senza lasciare una riga».
S’annoiò molto, in Messico?
«No, poteva andar peggio. Mi allenavo seriamente, semmai era Riva che saltava gli allenamenti con la scusa del dormire. Con Valcareggi avevo una certa confidenza, lo chiamavo zio Uccio e non mister perché era stato giocatore del Piombino quando io ero raccattapalle. Zoff mordeva il freno e veniva a sfogarsi da me. Stai calmo Dino, gli dicevo, perché Uccio farà giocare Albertosi anche se ha la febbre a
40. Così andò, anche se Albertosi fece qualche errore coi tedeschi e se fosse dipeso da me col Brasile avrebbe giocato Zoff. Ma non dipendeva da me, che da Valcareggi avevo già ottenuto una sorta di libera uscita. Già all’arrivo c’erano file di ragazze tifose fuori dal nostro albergo. Lido, ci tolgono tranquillità, fai come vuoi ma pensaci tu. Ci pensai eccome. Finché non vidi una ragazza favolosa, bruna, che girava su una Mustang rossa. Occhiate reciproche, colpo di fulmine, m’invita a casa sua. Casa è dire poco, una specie di castello in mezzo a un immenso giardino, militari all’ingresso».
E chi era?
«La figlia del vicepresidente. Del Messico, non della federcalcio. Una famiglia molto alla mano, dopo qualche giorno entravo e uscivo a tutte le ore. Graciela mi disse che era troppo giovane per avere la patente, guidava senza. Un pomeriggio, dopo aver visto che c’era una bella sala cinematografica con comode poltroncine, invitai tutta la squadra a vedere un film italiano, non ricordo il titolo. Credevo che certe cose potessero succedere solo in Svezia, almeno così si vociferava, quanto a libertà di comportamento. Fu bello tutto, e non dolorosa la partenza, sapevamo tutti e due perché era cominciata e quando sarebbe finita».
Il 4-3 come lo visse?
«Dalla tribuna presidenziale, con tanto di cucina. A un certo punto tutti scommettevano, nei supplementari. C’erano sul tavolo mucchi di soldi alti così».
E adesso cosa fa?
«Il pensionato, ultimo incarico allenatore dei portieri nel 2005 alla Fiorentina. Allo stadio non vado più da anni: se il Toro perde mi viene il magone, soffro».
Se il Toro perde, perde anche in tv.
«Sì, ma almeno non vedo le facce della gente, magari tifosi che ho conosciuto. Di stadi ne ho girati anche troppi. L’unica novità, se vogliamo, è che ho voltato le spalle al mio mare, che credevo essere unico. Da quando ho sposato una calabrese, ho scoperto un altro mare stupendo. Abbiamo una casetta a Bagnara, da giugno a ottobre mi trova lì, sul mare».
Il minimo, per uno che si chiama Lido.
«Questa è un’altra storia. Mio padre voleva chiamarmi Nilo, ma il parroco disse di no. Ripiegò su Lido». Anagrammando Lido Vieri, appassionato di enigmistica, basta spostare una «i» dal cognome e si ottiene idoli veri. De profession bel zoven, avrebbe chiosato paron Rocco. Nelle foto in bianco e nero, Vieri ha una faccia tra Raf Vallone (che pure giocò nel Torino) e Luigi Tenco. Erano anni in cui i calciatori matti erano l’1 e l’11. Poi s’è perso il
conto.