Ilaria Zaffino, la Repubblica 23/02/2010, 23 febbraio 2010
NON ROMPETE LE SCATOLE
Frigoriferi smart che ti avvisano con un bip quando le scorte all’interno stanno per finire o per andare a male. Spie luminose che occhieggiano dalle confezioni dei prodotti e cambiano colore se il contenuto è stato sottoposto a sbalzi di temperatura. Sensori Rfid che danno l’allerta in caso di maturazione avanzata. O, più semplicemente: sacchetti, foglietti, bustine e imbottiture che, nell’ordine, assorbono ossigeno, emettono etanolo (per far durare di più pane, pizza e biscotti), non fanno gocciolare (carni e pesci), evitano la muffa. Non è fantascienza applicata alla nostra tavola quotidiana. Al contrario. Molti di questi sistemi per conservare più a lungo il cibo (e quindi sprecarne di meno)
stanno per arrivare anche nelle nostre case e, se non ancora in Italia, negli Stati Uniti, in Australia e in Giappone già riscuotono parecchio successo.
Nel mondo ogni anno un terzo degli alimenti prodotti va sprecato: gettiamo nel cestino 1,3 tonnellate di cibo. Solo in Italia, secondo un rapporto elaborato da Waste Watcher, osservatorio nazionale sugli sprechi, ogni famiglia butta via due etti di cibo a settimana, che detti così non sembrano neanche troppi, ma in un anno si concretizzano in un totale di 8,7 miliardi di euro sprecati. Sono frutta, verdura, formaggio, pane, gli alimenti più penalizzati, mentre tra i cibi cotti prima è la pasta: fatto sta che circa il 25 per cento della spesa finisce nella spazzatura. Il motivo più frequente? Ha fatto la muffa. Cattivo odore. Oppure: è scaduto. Oltre il 40 per cento dello spreco alimentare avviene proprio tra
le mura domestiche.
Per arginare il fenomeno, la scienza dell’alimentazione più che sul “contenuto” oggi punta sul “contenitore”. Il packaging del futuro non solo mira ad allungare la
shelf lifedei
prodotti, ritardando la maturazione, prolungando la scadenza, eliminando l’umidità, assorbendo l’ossigeno, tanto per fare qualche esempio. Ci permette anche di monitorare passo dopo passo lo stato dell’alimento, segnalandoci immediatamente se, per esempio, ha subìto sbalzi termici. «Da una parte, il packaging sarà “attivo”», spiega Davide Barbanti, professore di Scienze degli alimenti all’università di Parma, «perché oltre a proteggere l’alimento da luce, calore, gas, batteri, interagisce con esso allungandogli la vita. Per esempio, evitandone l’ossidazione: accade a bevande, succhi di frutta. Oppure scongiurando
mutamenti di colore. Perciò vengono fuse all’interno della confezione sostanze antiossidanti. O più banalmente queste sostanze possono essere inserite in sacchetti, o bustine di materiale poroso, che a contatto con l’alimento non lo fanno diventare scuro o molle o perdere di croccantezza. Nei grandi magazzini dove vengono conservate enormi quantità di frutta, ci sono macchine che sottraggono l’etilene (la sostanza che fa maturare la frutta): ecco, nel piccolo la logica è la stessa. Per conservare mele e kiwi per un periodo più lungo devo adottare alcune misure attraverso l’immissione o la sottrazione di sostanze anti-microbiche o anti-invecchiamento».
Ma, dall’altra parte, il packaging di domani sarà anche “intelligente”, perché in grado di darci molte più notizie riguardo a ciò che ci apprestiamo a
mangiare. Al posto della semplice scritta “da consumarsi preferibilmente entro” avremo allora etichette termo- sensibili, che reagiscono al calore e cambiano colore, a mo’ di semaforo, del tipo verde (cioè, buono) o rosso (attenzione, ha subìto sbalzi termici). Oppure biosensori, per identificare la presenza di sostanze tossiche nei cibi utilizzando molecole di natura biologica, come anticorpi o enzimi, che quando entrano in contatto con una tossina reagiscono e subiscono delle modificazioni poi tradotte in un impulso elettrico.
Altro esempio: gli Rfid. Utilissimi per la tracciabilità dei prodotti, sostituiranno le vecchie etichette con una specie di chip che ci dice dove il prodotto è stato fatto e tutto quello che vorremmo sapere (e non abbiamo mai osato chiedere) sulla sua vita. A livello mondiale ci sono
marchi che già fanno queste etichette. Da noi quando arriveranno? Dal punto di vista tecnico, sembra tutto pronto, dicono gli esperti. Il problema grosso restano i costi troppo alti. «Il mercato italiano non è ancora maturo, anche se sta aumentando la sensibilità verso l’introduzione della tecnologia in confezioni e imballaggi» spiega Andrea Segrè, ideatore dell’osservatorio Waste Watcher. Lo dimostrano i risultati di un recente sondaggio (realizzato per
Repubblica
proprio da Waste Watcher con Swg) su come dovrebbe essere il packaging di domani: «Assistiamo a un atteggiamento ambivalente: il consumatore chiede sì indicazioni più chiare sulla provenienza e sulla reale scadenza dei prodotti, ma più che a sensori (auspicabili solo dal 23 per cento degli intervistati) ed etichette termosensibili (15 per cento) guarda ancora a imballaggi
sostenibili e a spreco zero (45 per cento)». Nel lungo cammino che ci condurrà a Rfid e spie luminose, infatti, una tendenza che ci riguarda tutti più da vicino è l’aumento del 60 per cento dell’eco- packaging nei prossimi cinque anni (secondo il rapporto Transparency Market Research): vedremo sempre più materiali ecologici e leggeri come bioresine al posto della plastica. E non si esclude un ritorno al vuoto a rendere tanto in voga trent’anni fa. Mentre, sul fronte opposto, piovono provocazioni: e se il pack di domani fosse addirittura commestibile? Un ricercatore di Harvard, David Edwards, sta già studiando questa soluzione: basta unire cellule di cibo a un polimero biodegradabile, promette, e il gioco è fatto. A quel punto, saremo davvero (anche) gli imballaggi che mangiamo.