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 2010  febbraio 23 Martedì calendario

DALLA CRIMEA AL VENETO, IL RISCHIO DI RIDISEGNARE LA GEOGRAFIA

Morire per la Transnistria, dopo aver sfiorato l’apocalisse con la Crimea? E quando dovremo esibire i passaporti per visitare Treviso dopo la simbolica secessione on line del Veneto? Del resto, c’è poco da scherzare. Nessuno conosceva le peripezie etnico-nazionali del Kosovo prima della dissoluzione della Jugoslavia: e dopo qualche anno, è stata la guerra. La mistica delle piccole patrie riattizza il culto delle radici e dei sacri confini. L’uso politico della geografia non promette mai nulla di buono. E dall’esplosione di Stati e imperi, gli umori indipendentisti incrociano sempre il riaffiorare delle logiche da grande potenza.
La tragedia si mescola alla commedia, per fortuna. Le convulsioni che scuotono l’Ucraina avvelenano lo scenario internazionale. Il plebiscito pro-secessione del Veneto non ha nessuna efficacia pratica. Ma segnala uno stato d’animo. Una rincorsa alla chiusura che annuncia di solito tentazioni centrifughe, deliri identitari, rifiuti e angosce. Tra un paio di mesi, mentre gli elettori del continente si recheranno alle urne con ogni probabilità regalando un grande successo ai partiti eurofobi, gli elettori sanciranno la fine del Belgio come noi lo conosciamo, con le ricche Fiandre che si separeranno dalla Vallonia nel nome dell’indipendentismo fiammingo. Il 18 settembre sarà la volta della Scozia, quando la patria di Braveheart e di Sean Connery che si fa immortalare in kilt si staccherà dall’Inghilterra e riacquisterà la piena sovranità. E la Catalogna? Il dualismo irriducibile tra catalani e castigliani di Madrid si sta trasformando in un dissidio che prelude alla rottura. La bandiera catalana viene sventolata a Barcellona come insofferenza per l’attuale autonomia amministrativa e come atto simbolico di divisione emotiva, prima ancora che istituzionale, nei confronti di Madrid. Lo Stato nazionale spagnolo ne uscirà certamente indebolito.
Così come è avvenuto nel nazionalismo romantico da un paio di secoli a questa parte, la rivendicazione nazionale si accompagna sempre a mitologie, inni, ricostruzioni leggendarie della storia, fantasie letterarie, attaccamento emozionale al patrimonio folklorico di un «popolo» vissuto come un tutt’uno inscindibile, legato dalla lingua, dalla religione, da un comune passato. Ma la differenza fondamentale è che il nazionalismo romantico aveva come bandiera e ideale la costruzione di uno Stato nazionale che inglobasse i particolarismi del passato. Mentre questo culto della separazione, questo neo-indipendentismo talvolta aggressivo, altre volte più mite, e in qualche caso parodistico, denuncia la crisi delle forze coesive degli Stati nazionali. L’insoddisfazione verso l’entità sovranazionale dell’Europa politica e monetaria spinge verso il rifugio delle piccole identità che vogliono andare per conto proprio, il rinserrarsi nel recinto di una purezza perduta e che si fantastica come meravigliosa in confronto alle miserie del presente. Si rimettono in discussione confini, frontiere, appartenenze. La dissoluzione catastrofica della Jugoslavia ha rinvigorito fino allo spasimo della crudeltà etnica la rivalità tra entità che erano rimaste insieme solo con il pugno di ferro del regime titoista. Ma non si è mai conclusa la transizione cruenta dalla dissolta Unione sovietica verso un’accettabile convivenza tra Stati nazionali diversi, tra il riesplodere delle velleità imperiali della Russia di Putin e il terrore delle nazionalità che si sentono minacciate dal gigantismo prepotente di Mosca. La Cecenia, gli incendi del Caucaso, ora l’esplosione dell’Ucraina filoeuropea e l’annessione brutale della Crimea da parte di Mosca. Un mosaico complesso e contorto in cui coesistono rivendicazioni religiose, etniche, nazionali, linguistiche. Prima che crollasse il muro di Berlino e la bandiera rossa fosse ammainata dal Cremlino, già Alberto Ronchey invitava i suoi interlocutori a contare le popolazioni non russe che ribollivano nei confini sterminati di quell’impero: «baschiri, ciuvaschi, daghestani, mordvini, tartari, udmurti, balkari, karaciai, calmucchi, mongoli buriati, ossezi, ingusci, ceceni». E chissà quante altre ancora.
Tragedie della storia. Pericolose come le rivendicazioni etnico-nazionali che stanno scuotendo persino la Cina. Imparagonabili con il gesto del Veneto, o con le velleità neoseparatiste che riaffiorano in Sicilia, o con il ribollire sordo della conflittualità etnico-linguistica dell’Alto Adige, peraltro mitigata dalle cospicue regalie finanziarie dello Stato italiano. Eppure, nella sfera degli umori e delle emozioni collettive, i segnali che provengono dalle mille «nazioni» che oggi si sentono strette negli abiti degli Stati nazionali devono far riflettere. Troppe volte tutto è cominciato che sembrava uno scherzo.