Sergio Romano, Corriere della Sera 22/3/2014, 22 marzo 2014
POLITICHE ECONOMICHE ITALIANE DURANTE IL REGIME FASCISTA
In una sua risposta lei ha analizzato i fattori all’origine di quello che viene definito il miracolo economico italiano. Possibile che la politica economica del fascismo non abbia alcun merito? Non conosco particolarmente la storia economica, ma mi sembra, ad esempio, che l’opera di Beneduce fosse considerata apprezzabile.
Cesare Vittore Scotti
Caro Scotti,
Non potevo parlare di economia fascista rispondendo a una lettera sul miracolo economico del secondo dopoguerra. Cercherò di farlo ora con una indispensabile premessa. Non esiste una sola economia fascista. Esistono fasi diverse in cui buona parte delle linee economiche adottate dal governo era imposta dalle condizioni del momento. Agli inizi, dopo la conquista del potere, Mussolini affidò il ministero delle Finanze a un economista liberale che aveva idee molto chiare sul modo in cui ridurre drasticamente la spesa pubblica. Occorreva eliminare il costoso apparato degli interventi statali resi necessari dalla guerra e Alberto De’ Stefani vi riuscì piuttosto bene. Rimase in carica sino al 1925 e cedette la poltrona a un imprenditore, Giuseppe Volpi, che negli anni precedenti aveva lasciato temporaneamente i suoi affari per diventare governatore della Tripolitania.
Volpi aveva il compito di favorire gli investimenti americani sgombrando il terreno dalla questione dei debiti di guerra. Come tutte le potenze alleate, l’Italia aveva fatto fronte alle esigenze del conflitto con importanti prestiti americani e avrebbe potuto contare su nuovi prestiti soltanto se avesse onorato i vecchi debiti. Volpi andò negli Stati Uniti, negoziò abilmente e poté contare sulle buone disposizioni degli americani a cui premeva investire in Italia. Fu totalmente mussoliniano invece il ritorno all’oro con un tasso di cambio fra lira e sterlina che sopravvalutava la lira e nuoceva alle esportazioni italiane. Mussolini lo impose per ragioni di prestigio nazionale senza tenere conto delle riserve di Volpi e delle critiche di alcuni imprenditori nazionali. Ciononostante, il prodotto interno lordo crebbe, fra il 1922 e il 1929, del 4%.
Quando la crisi americana del 1929 attraversò l’Atlantico e colpì il sistema finanziario europeo, le banche italiane avevano nel loro portafoglio le azioni di numerose aziende. Se fossero state costrette a dichiarare fallimento, avrebbero portato con sé, nella tomba, una larga parte del patrimonio industriale italiano. La creazione dell’Iri non fu un’idea del capo del governo, ma di uomini che avevano una formazione economica e una concezione dello Stato prefasciste, come Raffalele Mattioli, Alberto Beneduce e Donato Menichella. Mussolini capì che quella era la migliore delle soluzioni possibili; e in altre circostanze lanciò progetti che contribuivano alla modernizzazione del Paese.
La stagione degli errori comincia quando il nazionalismo diventa la sua ossessione prioritaria e il protezionismo, molto diffuso ormai nell’intero sistema economico internazionale, diventa autarchia. Per molto tempo Mussolini fu pragmatico e pronto ad accettare consigli che venivano dalla migliore tecnocrazia del Paese. Dalla metà degli anni Trenta commise l’errore di subordinare ogni decisione economica a sogni di grandezza che non tenevano conto delle reali condizioni del Paese.