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 2014  marzo 22 Sabato calendario

CAMPIGLI E LA LEGGE DELL’ESSENZIALE


Di giorno, pittore; di notte, giornalista. Nel 1914, a 19 anni, Massimo Campigli (1895-1971) entra al «Corriere della Sera» come segretario di Renato Simoni, che dirigeva «La Lettura» . Cinque anni dopo viene inviato a Parigi come vice-corrispondente. Il titolare è Pietro Croci, che, fra il novembre del 1925 e il marzo del 1926, dirigerà il quotidiano di via Solferino.
Nato a Berlino, da Anna Paolina Ihlenfeld, ragazza-madre di 18 anni («zia Anna»), il piccolo Max ne prende il cognome. Il bambino va a vivere con la nonna materna in Toscana, a Settignano. Nel 1899 Anna Paolina sposa l’inglese Giuseppe Bennett, rappresentante per l’Italia di una ditta di colori e si spostano prima a Firenze e poi a Milano, dove Max frequenta i futuristi. Sarà proprio la poetica marinettiana ad influenzare le sue prime scelte; così come il successivo «ritorno all’ordine».
Quando, nel 1915, si arruola volontario nell’esercito italiano e va al fronte, decide di usare definitivamente lo pseudonimo che adoperava al giornale: Massimo Campigli. Fatto prigioniero a Gorizia, evade dopo una ventina di mesi dalla fortezza viennese di Sigmund. Raggiunge Milano dopo un viaggio avventuroso che lo porta in Ungheria, Romania e Russia. Nel 1918 ottiene la cittadinanza italiana. Due mogli — sebbene l’artista dicesse di averne avute quattro: due legali e due no — e un figlio.
A Parigi, mentre lavora come corrispondente del «Corriere», Max frequenta artisti e scrittori, fra cui il gruppo di italiani che vivono nella capitale francese: De Chirico, Tozzi, De Pisis, Paresce. Conosce cinque lingue. I più giovani guardano al Cubismo e Cubismo vuol dire Braque e Picasso, ma anche Gris, Léger, Picabia e Severini.
Il Cubismo diventa per lui una sorta di «religione» estetica: «Allora era nella sua fase costruttiva, nel periodo che chiamano cristallo — ricorderà Campigli —. Chi scriveva d’arte ripeteva la fiera frase di Apollinaire: “Siamo i primitivi di una nuova sensibilità”». Il Cubismo «si vantava di rivelare e seguire regole d’arte eterne, indiscutibili, scientifiche, intellettuali e fisiche, si appellava agli egizi, ai classici, agli ordinamenti del Rinascimento».
Max scrive e dipinge. Ma il lavoro di giornalista gli piace sempre meno; la pittura gli permette di fuggire dal reale. D’un tratto prende una decisione coraggiosa: lasciare il «Corriere» («Nel 1927, il giornale dovette “allinearsi” e io diedi le dimissioni; non per chiaroveggenza politica, ma perché c’era un pretesto per ottenere l’indennità», annoterà).
L’anno dopo, Campigli è a Roma, dove resta folgorato dall’arte etrusca, ellenica, romana e dalle suggestioni di quella egizia del Fayyüm. Passa molto tempo nei musei. «Hanno un fascino enorme. Chissà che cos’è — ricorda in Scrupoli —. La solennità, l’immobilità, il sentirsi fuori dal tempo e dal mondo reale. Al museo tutto è vivo o magari morto, se si vuole, in modo singolare». Così il giovane Max subisce l’incanto della statuaria — soprattutto femminile —, prigioniera delle teche. Quindi, nel 1931, rientra a Milano, col cane Ras. Per un certo periodo dipinge soltanto donne in fogge diverse: variazioni sul tema.
Donne antiche, ma in un contesto modernissimo, esse rappresentano una fonte di ispirazione perenne. E Campigli se ne impossessa, mutandole in simboli e geometrie, inscatolandole, dando loro forme a clessidra. Cui, naturalmente, non sono estranee le esperienze della propria infanzia. A Milano espone presentato da Emilio Cecchi. Partecipa a Biennali e Quadriennali.
Contemporaneamente, si dedica ai ritratti. Familiari, amici, conoscenti. Che oscillano fra passato e presente. Monumentali, talvolta; ma sempre indagati. Il Novecento si fa antico.
Si veda, alla Fondazione Magnani Rocca, questa mostra di 80 lavori, provenienti da musei e collezioni private, a cura di Stefano Roffi. Una rilettura di Campigli in cui, attraverso mosaici e dipinti, divisi in cinque sezioni, viene esemplificata la sua poetica.
Dai ritratti (Bruno Barilli, Curzio Malaparte, Raffaele Carrieri, Irene Brin, Silvia Tofanelli, Olga Capogrossi, le famiglie dell’architetto Gio Ponti o del gallerista Carlo Cardazzo) degli anni 1928-1960, alle passeggiate delle educande, alle moglie dei marinai, al gineceo, alle donne nel metro o al bagno, alle figure sulle scalinate, alle feste campestri dal 1929 al 1958.
Ed ancora: dalle suonatrici di violino agli spettacoli in teatro, dalle pianiste al coro, dalle portatrici d’acqua alle mondine, dalle giocatrici da tennis al ping-pong. Per arrivare agli idoli. Pittura suggestiva classica e moderna, dove col passare degli anni, i visi paiono acquistare in morbidezza e mobilità, lasciando in parte la ieraticità d’un tempo.
«Delle mie donne dipinte nel 1928 che sembravano anfore tondo e sonore, e che vent’anni dopo erano diventate piatte e geometriche come i fili con cui giocavano, non resta nel 1962 che un contorno ritagliato sullo sfondo».
Ragioni di questi cambiamenti? «Non mi sono del tutto chiari. Forse seguo semplicemente il cammino di tutte le arti verso l’essenziale».