Renato Franco, Corriere della Sera 22/3/2014, 22 marzo 2014
GLI OGGETTI DI COBAIN E LA NOSTRA OSSESSIONE PER IL MITO
Uno strano regalo per ricordare i 20 anni della sua morte, e sì che ai suoi funerali gli avevano detto, «riposa in pace»: due foto inedite della scena del suicidio. Sono i dettagli di un’immagine più celebre, quella pubblicata a suo tempo dal Seattle Times in prima pagina in cui si vedeva parte del corpo di Kurt Cobain steso sul pavimento, pancia in su, un braccio con il pugno chiuso, ai piedi le scarpe da tennis. A un metro da lui alcuni oggetti. Oggi queste due nuove foto mostrano di cosa si tratta. L’inventario, come in una puntata di Csi , dà conto di una scatola di sigari, di alcune banconote spiegazzate, un mozzicone di sigaretta, occhiali da sole, un berretto, un pacchetto di sigarette, un accendino, quelli che sembrano due stracci, un portafoglio da cui spunta la carta d’identità. La seconda immagine rivela il contenuto della scatola di sigari, aperta probabilmente da uno degli investigatori sul posto: spicca un cucchiaino, forse ancora sporco di eroina, una siringa, degli aghi.
Probabile che da quella scatola Kurt Cobain abbia preso l’eroina che si iniettò prima di spararsi un colpo alla testa con un fucile da caccia calibro 20. Era il 5 aprile 1994. Tre giorni dopo il corpo fu ritrovato dall’elettricista Gary Smith.
Cosa aggiungono queste foto? Probabilmente nulla, perché il dipartimento di polizia di Seattle ha comunque precisato che il caso rimane chiuso. Ma la «fortuna» di morire giovani è la molla che tiene sempre vivi personaggi come Cobain. Così ieri queste due foto hanno invaso la rete, commentate e condivise sui social network, scrutate e analizzate in ogni particolare. Scoperte come queste — alla prova dei fatti insignificanti — alimentano il mito, lo tengono vivo, riaccendono il nostro immaginario. La fortuna di morire presto è quella di rimanere in un limbo di eterno presente, che si dilata e che non passa mai. Per noi — spettatori e sognatori di vite altrui — è la conferma, mai scontata, di essere ancora vivi e più fortunati di quei morti che hanno perso tutto.
Prosaicamente, va sottolineata anche una seconda fortuna: quando muori a 27 anni e sei già un mito, ti risparmi parecchi anni di carriera che potrebbe rischiare di sbiadire quella stessa leggenda. La creatività, soprattutto nel rock, con il tempo svapora, è un dato statistico. Bob Dylan si è autocostruito il suo piedistallo con «Blowin’ in the Wind» (1962) e «The Times They Are A-Changin’» (1964): che fatti due conti è roba di 50 anni fa. Belli, giovani, morti e sempre vivi.
Il Club 27 è noto: sembra il nome di un bar, ma racchiude gli scomparsi del rock a 27 anni. Come Brian Jones, il primo, fondatore dei Rolling Stones e pure a sua insaputa del Club. Una vita di eccessi sentimentali e psicotropi (alcol e droga) chiusi nel 1969, morto annegato nella piscina della sua villa. Stessi vizi condivisi da Jimi Hendrix, la sua faccia un’icona per le magliette come quella di Che Guevara. Se non fosse stato ammazzato da un cocktail di alcol e tranquillanti forse smuoverebbe meno il nostro senso ancestrale del mito, con quella chitarra mancina e quella nuvola di capelli neri. Una volta era Achille, adesso tocca a Jim Morrison, il poeta maledetto, inquieto e geniale, trasgressivo e fragile, uno che aveva tutte le carte in regola per diventare un simbolo. Anche per lui la fine perfetta («The End, my only friend, The End…», un capolavoro di canzone e un’istigazione al suicidio): a 27 anni muore nella sua vasca da bagno. Forse un arresto cardiaco. Ma non è importante. È proprio quando muore, che inizia a vivere veramente.
I capelli neri come la sua voce profonda e la sua anima buia. Amy Winehouse prepara prima un album di debutto e poi un album da leggenda: «Back to Black», con brani come «Rehab» e «Love Is a Losing Game». Tutto e subito. Tutto e basta. Ma è sufficiente un nuovo particolare, una nuova indiscrezione, un nuovo oggetto — vale per lei come per gli altri del Club — a mettere in moto il domino della condivisione collettiva, dei sentimenti partecipati, del ricordo plenario.
Michael Jackson se ne è andato a 50 anni, ma ha costruito il suo monumento a 24 (Thriller è l’album più venduto, 66 milioni di copie), poi ha preparato la sua morte da vivo con le sue ossessioni, i suoi tormenti. Ma alla fine rimane sempre quel guanto nelle sue infinite variazioni (su tutte quello di strass), a nascondere una mano ossuta, il segno del suo tempo immobile.
Renato Franco