Simon Makin, Focus 21/3/2014, 21 marzo 2014
L’UOMO CHE PESAVA I PENSIERI
Nel grande laboratorio disseminato di strumenti bizzarri, uno scienziato con la barba si muove attorno a un uomo coricato in posizione prona su uno strano letto oscillante. Dopo aver regolato una valvola qui e un contrappeso là, osserva una linea ondeggiante che scorre su un tamburo rotante. Se le sue teorie sono corrette, le ondulazioni corrispondono al flusso e riflusso dei pensieri dell’uomo.
NEUROSCIENZIATO D’ALTRI TEMPI. Angelo Mosso avrà anche chiamato questo dispositivo la “macchina per pesare l’anima”, ma i suoi interessi erano puramente scientifici. Più di un secolo prima che le tecniche di imaging cerebrale si affermassero in tutto il mondo, questo fisiologo del XIX secolo sembrava aver trovato un modo per misurare le variazioni dell’attività neurale usando poco più di una bilancia. Fino a poco tempo fa, era difficile capire se il dispositivo funzionasse veramente, perché i documenti che ne parlavano erano pochi e brevi. Ora, invece, dopo che Stefano Sandrone, neuroscienziato del King’s College di Londra, e i suoi colleghi hanno riscoperto i manoscritti originari dello scienziato e li hanno pubblicati commentandoli sulla prestigiosa rivista Brain, abbiamo una panoramica senza precedenti dell’attività di ricerca pionieristica e innovativa svolta da Mosso. Non solo. Una riedizione moderna della bilancia suggerisce che il dispositivo potrebbe davvero misurare l’attività del cervello – senza contare che i principi alla base di questo strumento potrebbero dimostrarsi utili anche agli studiosi contemporanei di neuroscienze.
IN ASCESA. La vita del geniale scienziato non è sempre stata facile e dovette lavorare sodo per riscattarsi dalle umili origini dell’infanzia. Nato il 30 maggio 1846 da un falegname e una sarta. Mosso visse un’infanzia di relativa povertà. Gli eccezionali risultati scolastici gli permisero tuttavia di laurearsi in medicina all’Università di Torino. Dopo la laurea nel 1870, viaggiò per cinque anni visitando alcuni dei migliori laboratori di ricerca d’Europa. Poi tornò all’università, dove rimase per i tre decenni successivi.
Mosso era uno scienziato eclettico, con interessi che spaziavano dalla circolazione sanguigna, all’affaticamento muscolare fino alla fisiologia delle emozioni. Negli ultimi anni di vita si dedicò persino all’archeologia. «Aveva una cultura davvero enciclopedica» dice di lui Sandrone, anche autore di una biografia su Mosso pubblicata nel 2013 per il Journal of Neurology. «Eclettico, ma non superficiale, indagava a fondo qualsiasi cosa studiasse». Grazie a Mosso, l’Istituto di Fisiologia dell’ateneo torinese diventò un punto di riferimento e un polo di attrazione per i migliori scienziati dell’epoca. Mosso fu anche candidato al premio Nobel. Molti degli esperimenti eseguiti mettevano a frutto le notevoli abilità manuali che aveva sviluppato nella bottega di falegname del padre. «Se non aveva lo strumento giusto per fare quello che desiderava, ne costruiva uno apposta» spiega Sandrone.
IN PRIMA PERSONA. Una forma mentis pionieristica che lo spingeva all’auto-sperimentazione non appena ne aveva l’opportunità. Quando studiava gli effetti dell’altitudine, per fare un esempio, Mosso e il suo assistente Giorgio si alternavano nella camera ipobarica che simulava le condizioni presenti in alta quota in montagna. La biografia Un cercatore d’ignoto, scritta dalla figlia Mimi, contiene il racconto avvincente di uno di questi esperimenti: «Tutti gli occhi erano intenti a scrutare il viso dell’uomo che aveva toccato la zona nella quale pochi esseri umani si erano mai arrischiati...». Dopo aver raggiunto l’equivalente di 8.000 metri, la vetta dell’Everest, Mosso fece segno a Giorgio di fermarsi e l’assistente, tirando un sospiro di sollievo, fece rientrare l’aria. Aprirono lo sportello «e mio padre uscì dalla campana subacquea barcollando. Dovette appoggiarsi al muro per evitare di cadere». Mosso aveva creduto erroneamente che il mal d’altitudine fosse causato da bassi livelli di anidride carbonica, anziché di ossigeno, ed era rimasto cosciente solo perché aveva aumentato la concentrazione di ossigeno nella camera ipobarica.
NEL CERVELLO. Considerata l’audacia di questi esperimenti, è soprattutto il suo lavoro sul cervello a interessare oggi neuroscienziati e psicologi. Mosso fu tra i primi a ritenere che l’afflusso di sangue al cervello vari in base a cosa stiamo pensando e aumenti quando dobbiamo svolgere compiti più difficili e impegnativi. Un principio analogo ha un ruolo centrale anche in metodiche moderne quali la risonanza magnetica funzionale, che misura il flusso di sangue tra le diverse regioni cerebrali per confrontarne l’attività relativa. «Il neuroimaging moderno è legato a un concetto antico» spiega il neuropsichiatra Marco Catani, nel team di studiosi del King’s College di Londra. «La misurazione diretta dell’attività neurale non è possibile, però si possono guardare le ombre e una di queste indica le variazioni emodinamiche».
Ma a fine ’800 tutto questo era controverso. Inizialmente Mosso studiò soggetti con un cranio difettoso nei quali, in altre parole, una parte del cervello non era protetta da ossa dure. Sigillava una camera chiusa riempita d’aria e posta intorno al cranio usando una versione modificata di un dispositivo chiamato pletismografo. Quando il sangue affluiva e defluiva dal cervello, i tessuti molli pulsavano spostando una quantità dell’aria presente nella camera, sufficiente per permettere la registrazione su un visore. Mosso mostrò che quando si assegnavano a qualcuno una serie di calcoli difficili da eseguire, le pulsazioni del cervello aumentavano di dimensione.
William James, uno dei fondatori della psicologia moderna, definì l’esperimento «la miglior prova dell’afflusso immediato di sangue al cervello quando c’è attività mentale».
IL PESO DELL’ANIMA. Ma quei difetti del cranio sono rari, così Mosso cercò altri modi per misurare la stessa attività anche in soggetti sani. Il risultato fu la cosiddetta “macchina per pesare l’anima”. Il libro pubblicato da James nel 1890, Principi di psicologia, contiene una breve descrizione dell’apparecchiatura, definita un “tavolo in un equilibrio delicato” che si inclinava verso la testa quando il flusso di sangue al cervello aumentava. Ma gli scritti di Mosso sull’argomento avevano avuto scarsa risonanza e ben presto andarono persi, rendendo difficile stabilire se il funzionamento fosse effettivamente quello descritto da James.
Eppure, oltre cento anni dopo, l’idea cattura l’immaginazione di David Field e Laura Inman che, presso il Centre for Integrative Neuroscience and Neurodynamics dell’Università di Reading in Gran Bretagna, decidono di costruire un dispositivo basandosi sul resoconto di James. Si tratta essenzialmente di una leva: il partecipante viene fatto coricare, poi si regola la sua posizione fino a quando il suo baricentro si trova direttamente sopra il fulcro, rendendola quindi sensibile alle minuscole variazioni di peso che si verificano con l’afflusso e il deflusso di sangue dalla testa.
CON IL COMPUTER. L’impresa si rivela ardua. Field e Inman scoprono ben presto che il loro dispositivo è troppo sensibile e cade sempre di lato. «La prima cosa di cui ti rendi conto è che questa cosa non sarà mai in piano» spiega Field. Per rimediare al problema, inclinano leggermente il piano verso la testa in modo da farlo appoggiare su una serie di bilance elettroniche per misurare le forze impercettibili che agiscono sulla bilancia grande. Risolto il problema, l’équipe si accorge che le fluttuazioni derivanti da movimenti involontari di chi si sottopone all’esperimento, ad esempio la respirazione e il battito cardiaco, condizionano la lettura dei valori. «Il movimento è di gran lunga superiore a qualsiasi variazione collegata al cervello» spiega Field. L’esperimento risulterebbe falsato. A questo punto la soluzione è ricorrere a un computer che sottragga i dati di questi movimenti dalle forze registrate dalle bilance.
Dopo un’analisi attenta, i ricercatori britannici concludono che il peso del cervello effettivamente cambia se sottoposto a una stimolazione, per quanto in misura paragonabile a una forza inferiore a un centesimo di newton. Resta il fatto che la bilancia che pesa il cervello potrebbe funzionare, perlomeno in linea di principio.
MANOSCRITTO. Ma come era riuscito Mosso a superare tutte queste difficoltà pratiche? Le risposte sarebbero arrivate soltanto con la scoperta dei manoscritti originali di Mosso e la pubblicazione di una descrizione dettagliata degli esperimenti. Consultando lo studio di Sandrone, Field si è reso conto che Mosso aveva affrontato gli stessi suoi problemi e aveva cercato di risolverli con quel che era disponibile nel 1870.
Diversamente da Field, Mosso aveva lasciato che il suo dispositivo avesse un’oscillazione libera e fu proprio questo movimento a determinare il caratteristico andamento ondulatorio della linea che corrispondeva ai pensieri del partecipante. Per prevenire un’oscillazione laterale eccessiva, il movimento era stato attenuato con un contrappeso regolabile che pendeva sotto il lato inferiore del tavolo. Aveva anche trovato il modo di registrare le interferenze che si verificano in altre parti del corpo, e le variazioni a livello toracico dovute alla respirazione.
Confrontando tutti questi parametri con il movimento della bilancia identificò le variazioni del flusso di sangue al cervello, quasi nello stesso modo con cui Field aveva spiegato le variazioni nel XXI secolo. Lo studio di Sandrone traduce il resoconto dei primi esperimenti svolti da Mosso sull’assistente Giorgio e su uno studente di 22 anni.
Racconta ad esempio che un suono allarmante aumenta il flusso di sangue al cervello. In alcuni esperimenti successivi si davano da leggere alcuni passaggi di un quotidiano, di un romanzo e di un testo di filosofia: in quest’ultimo caso, la bilancia s’inclinava più rapidamente – e questo è ciò che ci si può aspettare quando l’attività è più complessa. «Mosso – commenta Sandrone – ha aperto la strada allo studio dell’attività cerebrale cercando di dare una risposta scientificamente valida ad interrogativi tuttora in esplorazione nel campo del neuroimaging. Grazie alla riscoperta dei suoi manoscritti possiamo dare a Mosso il ruolo che merita nella storia delle neuroscienze».
Per fare un esempio, gli scienziati che utilizzano la risonanza magnetica funzionale considerano tuttora le fluttuazioni causate dalle pulsazioni e dalla respirazione e hanno bisogno di ottimizzare il cosiddetto “rapporto segnale-rumore” come già faceva Mosso. E già allora Mosso prendeva in considerazione età, sesso e livello di istruzione per trarre le proprie conclusioni
Simon Makin