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 2014  marzo 21 Venerdì calendario

PERCHÉ CERCARE LA BELLA POLITICA SE QUELLA CATTIVA FA PIÙ AUDIENCE


Cose che non c’erano nel 1976: le balconate di Santoro; centinaia di canali che per rubarsi mezzo punto percentuale di pubblico farebbero più o meno tutto; le telecamere che inseguivano intervistati che non avevano voglia d’essere tali.
Nel 1976 Paddy Chayefsky scrisse un film che s’intitolava Quinto potere e che contiene tutto il rapporto tra politica e tv del 2014. C’è il conduttore di un notiziario dallo share calante il cui esaurimento nervoso viene anabolizzato dalla notizia che stanno per sostituirlo, e che minaccia il suicidio in diretta. C’è quell’irresistibile combinazione d’invettiva ed esibizionismo, a la Beppe Grillo, che è l’invito al pubblico ad affacciarsi alla finestra e a urlare la propria esasperazione: «Sono incazzato nero, e tutto questo non lo accetterò più». Ci sono, naturalmente, i dati d’ascolto che a quel punto crescono. C’è la produttrice ambiziosa che mette sotto contratto un gruppo di terroristi (“L’esercito di liberazione ecumenica”) per un reality intitolato L’ora di Mao Tse Tung. C’è il pubblico volubile che si annoia del conduttore che voleva suicidarsi e poi voleva fomentarli e ora è solo un anziano depresso. C’è la produttrice che ha un programma in crisi e dei terroristi sotto contratto, e assoldarli per uccidere in diretta quel vecchio brontolone risolverà i problemi di tutti. Aaron Sorkin ha detto che «nessuno che abbia preconizzato il futuro, neanche George Orwell, l’ha mai fatto con l’esattezza di Paddy Chayefsky quando ha scritto Quinto potere».
Cose che non c’erano nel 1999: i Tea Party; i movimenti Occupy; le centinaia di canali a competere, e se non ci sono abbastanza spunti per riempirli bisogna fare quella cosa da gergo delle pagine politiche italiane: alzare i toni.
Nel 1999 Aaron Sorkin cominciò a scrivere The West Wing. La serie andò in onda per sette anni sulla Nbc, e raccontava la Casa Bianca. C’era un presidente democratico idealizzato (alla fine dell’era Clinton, Jed Bartlet era del tutto disinteressato al sesso); dei repubblicani fondamentalmente perbene (quando avevano la possibilità di sostituirsi al Presidente che rinunciava ai poteri perché gli avevano rapito la figlia, neppure se ne approfittavano); un universo fatto del confronto dialettico tra buone ragioni, in cui lo staff di brillantissimi liberal ogni tanto ammutoliva di fronte agli impeccabili argomenti degli altri a favore delle armi o contro il matrimonio gay.
Ci piace pensare a The West Wing come alla più bella serie tv che abbia mai raccontato la politica, e probabilmente lo è, e ancora oggi la si guarda volentieri: come gli album di fotografie d’epoca, come un reperto splendidamente dialogato e recitato. Ma, se andasse in onda nel 2014, la metteremmo da parte per quando abbiamo finito di drogarci. Di farci qualunque dose disponibile di serie televisive il cui racconto della politica ha preso la sospensione dell’incredulità e l’ha buttata nel secchio dell’umido. Che rilanciano come lo faceva la rete televisiva in Quinto potere: alzando il livello dell’adrenalina.
La vita, faceva dire Woody Allen al proprio personaggio in Mariti e mogli, non imita l’arte: imita la peggiore televisione. In una puntata della prima stagione di The West Wing, il Presidente era a letto con l’influenza. Guardava la tv del pomeriggio. Dopo aver descritto «un conduttore che fomentava un gruppo di ragazze i cui fidanzati erano tutti stati a letto con le madri delle fidanzate, e poi facevano uscire i fidanzati e le coppie si accapigliavano lì, davanti a tutti», Jed Bartlet chiedeva al proprio responsabile della comunicazione di rassicurarlo: «Questa gente non vota, vero?».
Dalla descrizione era facile intuire che il Presidente avesse visto Jerry Springer, un C’è posta per tè molto più aggressivo, in cui varia umanità renitente a risolvere in tv le proprie beghe veniva inseguita da una troupe con lo slogan «You can run but can’t hide», che si potrebbe adattare in «Corri, tanto ti prendiamo». È di certo una coincidenza che, prima di diventare il massimo esempio della tv liquidata come “trash”, Jerry Springer fosse un giornalista politico. È di certo una coincidenza che «You can run but you can’t hide» sia la minaccia di Bush a Osama bin Laden. È di certo una coincidenza che il formato «troupe insegue intervistato renitente» sia stato traslato, nella tv italiana, in formula fissa da talk politico.
Nasce prima il populismo negli studi televisivi o quello nelle urne? Prima i candidati del Movimento Cinque Stelle o i lisergici opinionisti di Formigli? Prima il complottismo dei parlamentari o quello degli sceneggiatori di Homeland? La disputa tra uovo e gallina sarebbe stata risolta se l’altrimenti lucido Aaron Sorkin avesse fatto capire al suo Presidente quant’era stata illuminante quella convalescenza? Se, invece di fargli fare la moralina ai limiti del suffragio universale, l’avesse equipaggiato di una citazione da canzonetta? Avremmo una tv migliore – e quindi migliore sarebbe anche il mondo che la imita fuori dagli studi televisivi – se Jed Bartlet avesse visto i fedifraghi inseguiti dalla troupe di Jerry Springer, avesse capito dove stava andando l’elettorato nell’era della rappresentabilità, avesse citato Skunk Anansie: «Yes, it’s fucking political»?
Scandal è un telefilm in onda il giovedì sulla Abc negli Stati Uniti, e da noi su Rai 3 (qui non lo guarda nessuno, ma su questo dettaglio torniamo tra poco). Ne sono protagonisti una tizia belloccia il cui lavoro, a Washington, è risolvere problemi, e il suo amante, il cui lavoro è fare il Presidente degli Stati Uniti. Insomma: Scandal è il The West Wing dell’era in cui le persone perbene non fanno più share, la prima serie di successo sulla Casa Bianca che non abbia paura di sembrare un tascabile d’appendice per massaie bisognose di colpi di scena cioè: per l’elettorato del ventunesimo secolo.
Elenco neppure esaustivo di cose accadute nella stagione in corso di Scandal: la protagonista, Olivia, ha scoperto che suo padre non è un direttore di museo ma il capo di una branca di Servizi Segreti Deviati che sono quelli che davvero comandano il Paese; ha altresì scoperto che la madre non era su quell’aereo che cadde vent’anni prima e quindi non è morta come credeva, ma è prigioniera in una cella dei Servizi Cattivi; ha poi scoperto che quell’aereo venne abbattuto da un missile sparato dal suo attuale amante, che all’epoca lavorava per i Servizi Cattivi, su ordine di suo padre, che sacrificò trecento passeggeri perché la moglie, dopo che l’aveva fatta scendere dall’aereo per arrestarla, gli aveva detto d’aver portato con sé a bordo una bomba (cominciate a capire perché sia molto meglio che in Italia Scandal passi inosservato? Non so come sia messo il vostro senso del ridicolo, ma io non credo che il mio possa reggere alla vista di Olivia Pope e le sue sottotrame usate per spiegare Ustica in qualche talk show).
Poi: subito dopo aver fatto scappare la povera mamma all’estero, e mentre quella uccideva un po’ tutti e tornava a Washington per fare altri danni, Olivia capiva che quella della bomba era una balla: era una mercenaria, non si sarebbe mai fatta esplodere in volo, quindi il papà era il (relativamente) buono e lei aveva appena lasciato libera una terrorista.
Nel frattempo: il capo dello staff del Presidente mandava il marito ufficialmente gay a sedurre il marito ufficiosamente gay della vicePresidente; la vicepresidente uccideva il marito e poi la faceva passare per morte naturale; incidentalmente, il Presidente non è manco tale: Olivia e la first lady hanno fatto falsificare i risultati elettorali (a sua insaputa, giacché lui mai avrebbe voluto barare: è un politico serio e onesto, che non esita a uccidere una truccatrice di voti pentita che sta per confessare).
C’era una volta l’espressione “salto dello squalo”; prendeva spunto dalla scena del 1977 in cui Fonzie, in Happy Days, ne saltava uno facendo sci d’acqua; si usava quando le serie tv diventavano inguardabili, avendo perso ogni credibilità e senso, avendo tradito ogni patto con lo spettatore. Ma, se farci esclamare «Ma mi stai prendendo in giro?!» diciassette volte a puntata è il tuo core business, si può ancora parlare di squalo saltato? Se vale tutto, quando diventa troppo? E, una volta che il troppo è diventato dose media, si torna indietro? Quand’è che il «Mi stai prendendo in giro» diventa «Guarda che secondo me è così davvero, avranno truccato le elezioni pure qui, e quel tizio non sarà morto di morte naturale, e quell’altra sarà nascosta in una cella segreta, ci scommetto, a me non la si fa»? Quanto saperlalunghismo (il grande male italiano) discende dai «L’ho visto in tv»?
House of Cards è stata la serie di cui si è più parlato negli ultimi tempi. Perché Netflix, che la produce, mette a disposizione tutte le puntate insieme, permettendo il consumo bulimico che ormai è tipico di spettatori così drogati che, oltre ad aver bisogno di un colpo di scena inverosimile al minuto, non possono neanche aspettare di consumare la loro dose una volta a settimana. Perché c’è quel gigante della recitazione di Kevin Spacey dietro a ogni intrigo, non solo protagonista ma persino retroscenista di se stesso, quando guarda in macchina da presa e spiega a noialtri ingenui elettori come sta fregando la democrazia.
La seconda stagione di House of Cards, distribuita in America il giorno di San Valentino, comincia con il tentativo del personaggio di Spacey (già passato da aspirante Segretario di Stato fallito a quasi vicepresidente, e mica potrà accontentarsi di restare vice) di tenere a bada una giovane giornalista, usata nella prima stagione per far fuori notizie e avversari. Lei ora ha dei dubbi su un protegé di lui, morto apparentemente suicida (non c’è bisogno che vi dica che l’ha ucciso lui, no?). Lui cerca di convincerla a lasciar perdere. Nella stazione della metropolitana nella quale le ha dato appuntamento per chiarirsi, la convince a cancellare ogni prova dal cellulare. Un secondo dopo, la butta sotto al treno.
La reazione di pubblico e critica è stata interessante, concentrata sulle implicazioni etiche (per un personaggio la cui etica è sette tacche sotto quella di Macbeth) dell’uccidere una con cui sei andato a letto: è più grave che uccidere un cane o un amico? Nessuno si è chiesto se fosse commestibile lo squalo per cui un tizio che sta per giurare come vicePresidente dà appuntamento a colei che intende uccidere in una stazione della metropolitana, che si suppone abbia delle telecamere in azione, contando sul fatto che lei lo segua esattamente nel punto cieco del binario e di riuscire a farle cancellare i dati dal telefono esattamente cinque secondi prima che passi il treno.
Certo, siamo nella tv post-Lost. Col mostro di fumo. E la botola. E gli altri bislacchi espedienti che lì trituravano ogni sospensione dell’incredulità. Ma Lost era fantascienza, il suo patto col pubblico era diverso. Portare l’equivalente del mostro di fumo dentro al racconto dei governi dei Paesi ci rende tutti retroscenisti.
Scandal e House of Cards hanno come mogli dei protagonisti due signore che fanno sembrare lady Macbeth uscita da La casa nella prateria, e per tutt’e due quest’anno gli sceneggiatori hanno pensato a uno stupro di gioventù. Nel novembre 2013 si scopre, in un flashback, che la first lady di Scandal fu stuprata dal suocero. A febbraio, in House of Cards, apprendiamo che Robin Wright era stata stuprata all’università. Superando il marito in cinismo e ambizione, usa l’informazione per cavarsi d’impaccio: un’intervistatrice le chiede conto di un aborto, lei dice che era il figlio dello stupro. La cosa interessante è che la puntata di House of Cards sembra la risposta alle polemiche della stampa americana dopo quella di Scandal. Si chiesero un po’ tutti i recensori: il flashback dello stupro serve a renderci più simpatica la first lady? (L’autrice di Scandal aveva risposto escludendo che il “likability factor” fosse tra le sue preoccupazioni nello scrivere quei personaggi).
Tra la domanda – può uno stupro servire a renderti simpatica? – e la risposta – altroché: può persino servire a renderti votabile – sono passati tre mesi, in tv. Nella realtà, per intrattenerci nell’attesa, il portavoce dei Cinquestelle ha rassicurato la presidente della Camera, che aveva dato a coloro che la minacciavano sul blog del Movimento dei “potenziali stupratori”: «Anche se noi del blog di Grillo fossimo tutti potenziali stupratori, tu non corri nessun rischio». Poni una domanda televisiva sullo stupro come eventuale fattore di consenso e gradimento, passano mesi, e la vita ti risponde spiegandoti che comunque, fuori dalla tv e dentro al Parlamento, anche per lo stupro serve un quid che o ce l’hai o non passi la selezione.
C’era una volta la sospensione dell’incredulità. Poi arrivò l’autunno del 2001. Se la cultura popolare è vaga intuizione plasmata con invidiabile tempismo (che è una formula che mi sto inventando ora, ma fingeremo sia una definizione d’una qualche autorevolezza), nessuno ha inciso di più sulla tv e quindi sulla politica di questi anni di quanto abbia fatto 24. 24 è un telefilm andato in onda per sette stagioni dal novembre 2001. Kiefer Sutherland impersonava un agente dell’antiterrorismo che, ogni volta, aveva 24 ore per fermare qualche complotto, attentato, fine del mondo.
Se nel 2014 erano ridicole le preoccupazioni sull’impressionabilità dei giurati dell’Oscar, che non avrebbero visto e quindi votato 12 anni schiavo, c’entra 24. Che ha fatto della tortura una branca dell’intrattenimento generalista. Se negli ultimi mesi di Scandal – in onda su una rete per famiglie, mica su un canale cable per intellettuali – ci sono stati uno che strappa i denti alla sua migliore amica per farle confessare un doppiogiochismo, e una che si strappa la carne dai polsi a morsi per farsi portare in infermeria dalla cella in cui è rinchiusa, è perché c’è stato 24. La pornografia della tortura va in prima serata: come possono gli spettatori di un film sullo schiavismo impressionarsi?
Se prendiamo l’11 settembre 2001 come l’inizio della contemporaneità, 24 è l’unica serie che si sia fatta trovare pronta. Era già in produzione e, quando venne messa in onda, era il più preciso dosaggio di Zeitgeist che rete televisiva potesse sognare. Eravamo circondati. Tutti tramavano contro tutti. Tutti torturavano tutti. Tutti erano pronti a tutto. 24 era la tv del futuro, e quindi anche la politica del futuro. Era il paranoico che abbiamo incontrato poco fa sul tram quello – che diceva che i servizi segreti vogliono ucciderlo perché lui sa la verità – fatto divenire lucido analista politico. Era domani. Era oggi. Jack Bauer, l’agente che salvava l’America non solo dai terroristi cattivi ma anche dal Governo doppiogiochista, dagli altri agenti corrotti, da se stessa, era uno il cui programma elettorale era «Il re è nudo». Ci sembrava solo uno squalo che saltava uno squalo a cavalcioni d’un altro squalo, solo una sagra di soglie del dolore implausibili e complotti fantascientifici. Dovevamo fidarci di più di Woody Allen. Dovevamo saperlo, che poi Jack Bauer l’avremmo votato. Era fucking political, e sembrava solo un telefilm con gli spari.