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 2014  marzo 21 Venerdì calendario

IL FEGATO DI WALL STREET E IL SENSO DEL CAPITALISMO


C’è una storia formidabile sfuggita incomprensibilmente alle prime pagine dei giornali italiani occupate da toto nomine, operazioni politiche di Civati e altre cose inutili. La stampa americana invece si è guardata bene dal sottovalutarla perché, nonostante abbia origine e sviluppo italiani, rappresenta l’essenza del sistema capitalistico statunitense che non è la caricatura che ne fa Occupy Wall Street né la truffa alla Wolf of Wall Street, ma la ricerca del profitto come strumento capace anche di generare il benessere generale.
È la storia di una molecola creata in un laboratorio a Perugia, volata in America, salvata dall’estinzione a Milano, quotata al Nasdaq di New York e, improvvisamente, a gennaio, e nel giro di quarantotto ore, accreditata della speranza di curare alcune gravissime malattie epatiche mortali e per questo capace di capitalizzare in Borsa otto miliardi di dollari. Otto miliardi di dollari. Chiamiamolo il fegato di Wall Street.
Alla fine degli anni Novanta, Roberto Pellicciari, professore di Chimica Farmaceutica all’Università di Perugia, ha sviluppato uno studio sulle malattie epatiche creando dall’acido biliare chenodeossicolico un composto molecolare più potente e più efficace rispetto a quello esistente nell’organismo nell’attivare i recettori FXR del fegato, quelli che orchestrano la formazione e la secrezione della bile ovvero del detergente del sistema intestinale. Secondo il professore, con questa molecola si sarebbe potuto aggredire una serie di patologie del fegato potenzialmente letali.
La molecola brevettata si chiama INT 747, ma dagli esperti è conosciuta come Oca. Per anni nessuno ha creduto nello studio di Pellicciari, cioè nessuno ha finanziato la ricerca necessaria a testare la sua efficacia, se non nel 2002 un manager canadese che si chiama Mark Pruzanski. Dal suo appartamento nel West Village di New York, con un debito di 100mila dollari, un conto corrente che non segnava il rosso per soli 5 dollari e i familiari che gli consigliavano di trovarsi un vero lavoro, Pruzanski si è impegnato a trovare investitori per avviare i test, ma non è riuscito a raccogliere più di due milioni di dollari nel mercato dei penny stocks non quotati, vendendo le azioni della società Intercept, proprietaria della molecola, a mezzo centesimo ciascuna.
Troppo alto il rischio di flop, troppo costosi i trial, troppo lunghi i tempi. Senonché, nel 2006, è arrivato il finanziere milanese Francesco Micheli. Sollecitato da Umberto Veronesi e dalla consapevolezza che in Italia ci sono fior di scienziati ma anche un’enorme carenza di finanziamenti per la ricerca, Micheli tre anni prima aveva costituito un fondo di venture capital per sostenere gli studi di biotecnologia finalizzata al mercato farmaceutico. In nove anni, la Genextra di Micheli (compartecipata al 20% da Banca Intesa) ha investito 75 milioni di dollari su Intercept per pagare la ricerca nei laboratori perugini e la costosissima sperimentazione fino alla Fase 3 contro una rara malattia autoimmune, la cirrosi biliare primitiva (PBC). Sulla molecola perugigina, Genextra ha coinvolto il più importante fondo americano di biotecnologie, OrbiMed, e nell’ottobre del 2012 ha condotto Intercept alla quotazione al Nasdaq. L’offerta pubblica iniziale è andata bene, dopo un anno Genextra è rientrata del suo investimento, è scesa al 33 per cento di Intercept e ha trovato sul mercato i soldi per continuare i test.
Il 9 gennaio di quest’anno, la svolta. Il Ceo di Intercept, Mark Pruzanski, stava pranzando allo Standard Grill del Meatpacking district di New York quando ha ricevuto una telefonata che lo avvertiva di una novità dal National Institute of Health (NIH). L’ente governativo americano, nel marzo 2011, aveva chiesto a Intercept di poter testare autonomamente la molecola made in Perugia su 283 pazienti malati di Nash, la steatosi epatica non alcolica meglio conosciuta come sindrome del fegato grasso che, secondo la stessa NIH, colpisce tra il 5 e il 10 per cento degli americani, in particolare quelli con un’alimentazione troppo ricca di calorie.
Con questi numeri, e in mancanza di un farmaco che bruci efficacemente i grassi nel fegato, c’è il forte rischio che nei prossimi decenni per i pazienti con steatosi degenerate in cirrosi sia necessario un ricorso a trapianti numericamente insostenibile.
La sperimentazione della NIH si sarebbe dovuta concludere alla fine del 2014, ma il 9 gennaio è stato annunciato che sarebbe stata interrotta a metà perché la molecola aveva già raggiunto risultati di efficacia eccezionali. Il titolo di Intercept è schizzato a 445 dollari, con un balzo record del 545%. Dopo una precisazione della NIH, legata all’aumento del colesterolo riscontrato sui pazienti, il titolo è sceso di un centinaio di dollari, ma da allora è tornato sopra i 400 dollari (il titolo era stato quotato a 15 dollari). Secondo Merril Lynch Bank of America il target price è addirittura di 875 dollari, cioè Intercept potrebbe valere 15 miliardi di dollari, il doppio di quanto capitalizza oggi. La quota di Genextra è del 33 per cento. Fate i conti e magari calcolate l’impatto, in caso di vendita di Intercept, sui bilanci di Intesa San Paolo (che ha il 20% di Genextra).
La cosa straordinaria è che passeranno ancora molti anni prima che il composto diventi un farmaco autorizzato a curare la steatosi non alcolica. Sempre che superi i test. Arrivati a questo punto di sperimentazione è ancora possibile che Intercept non riesca a ottenere le autorizzazioni delle agenzie governative americane ed europee. Nel caso, tutti gli investimenti andrebbero in fumo. Non solo: i diritti a sfruttare commercialmente la molecola scadranno in 15 anni, poi il farmaco diventerà generico e utilizzabile da chiunque. Nel frattempo alcuni appartenenti al privilegiato 1% della popolazione si saranno ulteriormente arricchiti, ma a beneficio, non a scapito, del restante 99% che proprio grazie alla sfrenata corsa al profitto dei lupi di Wall Street potrebbe avere a disposizione un farmaco salva vita.