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 2014  marzo 21 Venerdì calendario

IL MONTE PASCHI SCOPRE IL BRIVIDO DI ESSERE SCALABILE


Con la vendita del pacchetto di azioni del 12% circa del capitale del Monte dei Paschi da parte della Fondazione, si è determinata la plastica evidenza della definitiva chiusura di un’epoca. La cessione a Morgan Stanley, che collocherebbe le azioni presso fondi americani di vario genere, non è un atto che coglie di sorpresa perché si sapeva che l’ente fondatore si stava adoperando per dismettere una parte consistente della propria partecipazione, innanzitutto per saldare i debiti con le banche. Ma con la chiusura di una lunghissima periodizzazione, oggi si rileva ancor più nettamente la condizione, inevitabile, di contendibilità del Monte, sia pure mentre si trova in uno stato particolare. Una condizione che poco più di due anni fa sarebbe apparsa impossibile e nei confronti di chi l’avesse ipotizzata si sarebbero compiuti sicuramente gesti apotropaici. Dagli altari alla polvere? No, perché, intanto, quelli occupati da una Fondazione detentrice del 51% erano altari finti e, comunque, costruiti sulla sabbia, mentre questa non è la condizione di chi cade nella polvere, ma di chi, di fronte al dramma che ha sconvolto una plurisecolare realtà bancaria, si adopera, da un lato, per venirne fuori senza disperdere nel modo peggiore possibile il patrimonio accumulato e, dall’altro, per risanare e rilanciare l’Istituto. Il sindaco di Siena ha detto che la Fondazione e la Banca si salvano insieme. È la linea che più volte abbiamo rappresentato su queste colonne, lanciando un caveat contro comportamenti che fossero stati ispirati all’adagio mors tua. Ma mea.
Ora si profilano gli ulteriori passaggi. La Fondazione dovrà decidere come gestire la residua partecipazione del 15%, quanta parte di essa, in specie, cedere e di quanta rimanere in possesso per esercitare comunque un ruolo nella compagine azionaria, per esempio, come si dice, con il 5%, pensando nel contempo a diversificare gli investimenti dell’ente. Si avvicina, poi, il momento della realizzazione dell’aumento di capitale per 3 miliardi, momento che sarebbe bene fosse più ravvicinato rispetto all’ipotesi di giugno. Insomma, si ridefinisce il profilo strategico e operativo della Fondazione e si rivisitano le strategie. Non so se la vendita del 12% e le relative condizioni di prezzo costituiscano «un piccolo miracolo», come è stato detto, ma certamente hanno sbloccato una situazione che sembrava stagnante e hanno accelerato il percorso verso la sistemazione della partecipazione della Fondazione nonché verso il rafforzamento del capitale. Il disegno preferito sarebbe quello di un Monte public company. Se ci si riesce, sarebbe un approdo importante. Basta, comunque, riflettere su questa aspirazione per misurare la distanza enorme nei confronti delle tesi del passato: oggi bisogna augurarsi un azionariato diffuso, quando un tempo si teneva saldamente in pugno la maggioranza assoluta, nella sordità a qualsiasi sollecitazione a darsi carico dell’impossibilità che quella condizione di potere durasse e nell’affermarsi di una idea sbagliata della senesità, mentre si sviluppavano rapporti tra Istituto, enti di varia natura, organismi sociali, financo religiosi che, pur non infrangendo norme, erano l’opposto della distinzione delle rispettive attribuzioni e dei corrispondenti fini nonché frutto di una visione distorta del ruolo del Monte.
La pervicacia nel voler mantenere il 51% del Monte in capo alla Fondazione è il primum movens di tutti i mali che sono seguiti, anche dovuti a fenomeni causali autonomi e distinti: ma senza quella resistenza la storia del Monte sarebbe stata diversa e non avrebbe rischiato un ricordo sullo stile del «disfecemi» della famosa conterranea Pia dantesca. È lì che inizia il dramma, anche della stessa acquisizione di Antonveneta e di tutti gli altri gravi errori compiuti. Ora, però, bisogna guardare al futuro e non escludere che lo stesso disegno della public company possa essere travolto dagli effetti dell’ormai raggiunta contendibilità. Sarebbe, in ogni caso, la dimostrazione della vitalità della Banca e del fatto che se la presidente della Fondazione, Antonella Mansi, ha bene operato, bisogna dire che la vendita si è potuta verificare con buone condizioni pure perché si è apprezzata l’azione di risanamento del Monte condotta da Profumo e da Viola e nella quale è impegnato il personale tutto. Insomma, bisogna essere pronti a tutte le eventualità: ora si deve nuotare in mare aperto.