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 2014  marzo 21 Venerdì calendario

TUTTI I VINCOLI CHE NON RISPETTEREMO


Dopo il famigerato spread – che ha tenuto banco nel periodo “finanziariamente” più burrascoso della crisi scoppiata nel 2007/2008 – ecco un nuovo “totem” che sta colonizzando l’immaginario pubblico italiano, guadagnandosi vasta popolarità ben oltre la ristretta cerchia degli specialisti e degli addetti ai lavori. Tre per cento: è il limite massimo per il rapporto fra deficit e Pil stabilito originariamente dal Trattato di Maastricht (1992), e confermato nel Patto di Stabilità e Crescita (1997) e nelle più recenti deliberazioni dell’Unione europea sulle finanze pubbliche degli stati membri (i regolamenti del Sixpack, poi incorporati nel Trattato sulla Stabilità, sul Coordinamento e sulla Governance nell’Unione economica e monetaria, il cosiddetto Fiscal Compact).
Il presidente del Consiglio Renzi, pur definendo «oggettivamente anacronistico» il parametro, ha ribadito varie volte che non intende avallare alcuno sforamento del tetto del 3%. I suoi interlocutori europei – da ultimo, ieri, il presidente della Commissione Manuel Barroso – gli hanno ricordato gli impegni presi dall’Italia, dicendosi fiduciosi che il percorso di risanamento dei conti proseguirà anche sotto il suo governo.
Tutti d’accordo dunque? Non esattamente. L’impressione che emerge è quella di un presidente del Consiglio deciso a giocarsi la partita in Europa seguendo un doppio binario: da una parte le rassicurazioni e l’omaggio retorico alle regole, dall’altra una politica economica decisamente espansiva, che poco si cura del rispetto di vincoli e trattati.
Andiamo al di là delle parole e guardiamo ai numeri. Il rapporto deficit/Pil sarebbe previsto per quest’anno al 2,6% del Pil. Il nuovo governo ha messo in cantiere una serie di misure che costeranno circa 16 miliardi di euro nel 2014 fra uscite strutturali e una tantum (fondo di garanzia crediti alle Pmi; piano casa; piano straordinario per l’edilizia scolastica; fondo per il dissesto idrogeologioo; abbattimento del 10% dell’Irap; fondo per le, imprese sociali; aumento del credito di imposta per i ricercatori; sgravio fiscale Irpef sui redditi più bassi). Le coperture fin qui presentate valgono dai 5 ai 7 miliardi: 3 provenienti dalla spending review relativa al 2014 (con un obiettivo “massimo” di 5 miliardi indicato da Carlo Cottarelli) e 2,6 miliardi dall’incremento della tassazione sulle rendite finanziarie. Mancano all’appello una decina di miliardi, anche considerando la piccola quota di risorse già accantonate dai precedenti governi per alcuni di questi provvedimenti.
Spingendo il rapporto deficit/Pil dall’attuale 2,6% fino al 3%, le risorse liberate sarebbero poco più di 6 miliardi. È evidente, dunque, che lo sforamento è più che una ipotesi sul tappeto. E tutto ciò senza contare i debiti della pubblica amministrazione – circa 70 miliardi secondo le stime della Banca d’Italia – che il nuovo governo ha promesso di saldare entro settembre. Il presidente della Cassa Depositi e Prestiti, Franco Bassanini, ha dichiarato che circa il 20% di queste passività (14 miliardi) è relativo a operazioni in conto capitale. Ciò significa che il suo pagamento sarà contabilizzato nel deficit di quest’anno, facendolo salire ulteriormente.
C’è infine la legge delega cui è stata affidata la riforma del mercato del lavoro e degli ammortizzatori sociali. Le varie ipotesi circolate sul «sussidio unico di disoccupazione» cui faceva cenno la bozza di JobsAct presentata a gennaio hanno un costo di diversi miliardi.
D’altra parte il limite del 3% non è l’unico vincolo che i trattati europei ci imporrebbero di rispettare. Il Sixpack prescrive l’obiettivo di medio termine del pareggio di bilancio strutturale (ovvero corretto per l’impatto del ciclo economico e al netto di misure una tantum e temporanee), con tanto di sanzioni da comminare ai paesi colpevoli di «deviazioni significative». I firmatari del Fiscal Compact sarebbero inoltre tenuti ad effettuare una riduzione del loro debito pubblico di un ventesimo l’anno della quota eccedente il 60% del Pil, così da rientrare al di sotto della soglia nel giro di un ventennio. Per l’Italia si tratterebbe di uno sforzo sovrumano, dato che nel 2013 il nostro debito era al 132,6% e nell’anno in corso la stessa percentuale è senz’altro destinata ad aumentare (le ultime stime la collocano al 133,7). Anche ipotizzando prospettive molto ottimistiche sull’andamento della crescita economica, dell’inflazione e dei tassi di interesse sul debito stesso, avremmo bisogno di avanzi primari estremamente elevati per molti anni a venire per adempiere ad un compito così gravoso.
«Noi non abbiamo paura di confrontarci con nessuno sui numeri e sul rispetto dei parametri europei», ha detto Renzi ai deputati italiani prima di partire per Bruxelles. Che questa tranquillità gli venga dalla diffusa consapevolezza – anche in Europa – del carattere totalmente irrealistico degli obiettivi che abbiamo di fronte?