Sandro Orlando, Sette 21/3/2014, 21 marzo 2014
«VI SPIEGO PERCHÉ TASSARE I RICCHI FA BENE AL CAPITALISMO»
Tassare di più le rendite finanziarie è giusto, democratico, e anche sensato da un punto di vista economico. Far pagare l’Imu anche sulla prima casa è doveroso e necessario, per riequilibrare un sistema fiscale irrazionale che mortifica il lavoro e l’impresa, e frena lo sviluppo.
A sostenerlo non è un esponente dell’ala più radicale della sinistra, ma un professore dell’Ecole d’économie de Paris, Thomas Piketty, 43 anni, che con il suo ultimo libro, Le Capital au XXI siècle, un volume di 970 pagine pubblicato da Seuil che sta per uscire ora in traduzione inglese, ha già scatenato un intenso dibattito tra le due sponde dell’Atlantico. Provocando mal di pancia soprattutto tra quegli economisti di scuola neoliberista che si sono visti confutare, numeri alla mano, il loro principale assunto, e cioè la fede nella capacità di autoregolamentazione del libero mercato. Perché analizzando una formidabile quantità di dati storici e comparativi, statistiche sull’evoluzione dei redditi mai viste prima d’ora, che coprono un arco di tre secoli e più di venti Paesi, Le Capital au XXI siècle arriva a farci vedere come è cambiata la distribuzione della ricchezza nel corso del tempo. E le conclusioni sono disarmanti: perché le democrazie contemporanee non sembrano molto diverse dalle società della prima rivoluzione industriale.
“Il dilemma di Rastignac”. Dimenticatevi allora parole come mobilità sociale e meritocrazia, ci dice Piketty: più che l’impegno individuale, il talento e le competenze, a fare la differenza, oggi come ai tempi di Marx, sono i patrimoni di famiglia. L’economista ce lo dimostra ricostruendo l’andamento storico del rapporto tra la ricchezza privata e il reddito nazionale. In tutti i Paesi più avanzati il divario tra le rendite accumulate e i redditi generati da lavoro ha ripreso a crescere in modo esponenziale negli ultimi quarant’anni, fino a tornare ai livelli precedenti la Prima guerra mondiale. In Italia l’insieme delle rendite fondiarie e finanziarie è quasi quadruplicato tra il 1970 e il 2010, così che oggi la ricchezza in immobili, depositi bancari e titoli vale quasi otto volte di più del reddito nazionale, un record.
La spiegazione che l’autore de Le Capital au XXI siècle dà di questo fenomeno è semplice: i grandi patrimoni crescono più in fretta dell’economia nel suo insieme, e quindi dei redditi. È nella natura stessa del capitale, e questo aumenta le diseguaglianze, osserva Piketty: «Se ho un’eredità di 10 milioni di euro, posso contare che mi renda almeno un 5% d’interessi l’anno: nessuno stipendio potrà crescere allo stesso ritmo». Ma quando le rendite prevalgono sui redditi da attività, è tutta l’economia ad avviarsi verso il declino: perché anche la propensione al rischio e agli investimenti è minore, così che le imprese diventano finanziariamente più fragili, e le prospettive di crescita ancora più basse. In una spirale negativa in cui alla fine anche gli imprenditori si ritrovano a fare solo finanza e speculazioni immobiliari, trasformandosi in rentier.
Siamo tornati dunque alle condizioni sociali descritte dai romanzi di Honoré de Balzac? L’economista francese prende le mosse proprio dalla Comédie humaine per verificare l’attualità di quello che chiama il «dilemma di Rastignac»: «In Papà Goriot lo spregiudicato Vautrin spiega al giovane Rastignac che gli studi e il merito non portano a nulla, ma che c’è un solo modo per conquistarsi un tenore di vita agiato, mettere le mani su un patrimonio».
Due secoli dopo è ancora così, si chiede Piketty? O i redditi raggiungibili con una vita di lavoro e sacrifici continuano a essere di gran lunga inferiori a quelli che potrebbe assicurare il matrimonio con un “buon partito”? A giudicare dai consigli distribuiti ancora in tempi recenti da un Berlusconi, per esempio («Ragazze, sposatevi un miliardario!»), parrebbe di sì. Ma il nostro economista ha un approccio scientifico, e prova a darsi una risposta usando strumenti statistici. Il risultato? L’1% della popolazione più ricco, in quanto a patrimoni di famiglia, continua a godere di un livello di vita più alto rispetto all’1% della popolazione che guadagna di più, in termini di stipendi.
Il caso italiano. La rendita insomma batte il lavoro, oggi come ai tempi di Papà Goriot. Eppure tra la Grande Guerra e il 1970 è successo il contrario, la ricchezza prodotta e risparmiata è cresciuta più rapidamente di quella ereditata, e questo ha generato l’illusione che il capitalismo potesse contenere in sé dei meccanismi di redistribuzione della ricchezza e riequilibrio sociale. In realtà non è stato così, osserva il docente francese: «Una gran parte del patrimonio privato è stato distrutto da due guerre mondiali e dalla crisi del ’29. La crescita economica che è seguita nel secondo dopoguerra ha ridotto le diseguaglianze, facendo prevalere la percezione di mobilità sociale e di meritocrazia. Ma si è trattato solo di un fenomeno transitorio, che non ha modificato minimamente la struttura profonda del capitale e delle sue iniquità».
«Il capitalismo», conclude Piketty, «produce meccanicamente delle diseguaglianze insostenibili, arbitrarie, rimettendo radicalmente in questione i valori meritocratici sui quali si fondano le nostre democrazie».
Negli ultimi quarant’anni, osserva ancora il professore, la ricchezza accumulata ha ripreso a riprodursi a un ritmo molto più rapido della crescita economica, come succedeva già nel XIX secolo. E questo sta accentuando sempre di più il divario tra i più ricchi e i meno abbienti.
Anche in Italia, dove il 10% della popolazione possiede il 50% della ricchezza complessiva. Ricchezza che Bankitalia stima in 8.542 miliardi di euro, e per quasi i due terzi è costituita da immobili e terreni, e per il restante terzo da depositi e titoli. Un patrimonio privato che è raddoppiato in meno di vent’anni e che sfugge quasi del tutto al sistema d’imposizione progressiva che riguarda solo i redditi da lavoro e d’impresa. La nostra spesa sociale, le pensioni si reggono solo su questi ultimi.
Per quanto ancora potremmo permetterci questi squilibri sociali ed economici? Come saranno le nostre società nel 2050 o 2100 se la natura intrinseca del capitale, con le sue storture, non sarà corretta? Piketty ha già provato a rispondere a questa domanda in un suo precedente libro, uscito anche da noi, dal titolo esplicito: Per una rivoluzione fiscale (Editrice La Scuola). La soluzione suggerita è semplice: basterebbe un’unica imposta progressiva, ugualmente ripartita sui redditi e i patrimoni. E il testo è stato già fatto avere al responsabile economico del Pd di Matteo Renzi, Filippo Taddei. La scelta ora spetta alla politica.