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 2014  marzo 21 Venerdì calendario

IL MARCHESE
CHE INVENTÒ 
IL MADE IN ITALY


Un direttore d’orchestra. «Somigliava più a un direttore d’orchestra che a un manager della moda». Così l’editore americano John B. Fairchild – anima di Womens’ Wear Daily – ricorda Bista Giorgini, il marchese Giovanni Battista detto Bista, l’uomo che ha gettato le basi per il successo del made in Italy. Non uno stilista, quindi? Esatto. Un nobiluomo lucchese dallo stile rinascimentale, nato a Forte dei Marmi e cresciuto a Firenze; porta lo stesso nome di un suo antenato, quest’ultimo al fianco di Carlo Alberto prima e di Vittorio Emanuele II poi, ha contribuito a dare una fisionomia unitaria alla Penisola. Se l’avo fece l’Italia, il discendente ne creò una tra le eccellenze, la moda. Alto, slanciato, occhio chiaro e lampeggiante, sorta di principe di Salina - molto più intraprendente del don Fabrizio tratteggiato da Tomasi di Lampedusa nel Gattopardo -, è il marchese Bista ad avere l’idea di dar vita alle prime sfilate di moda italiana tra le mura di casa propria, Villa Torrigiani a Firenze in via dei Serragli 144. La data del debutto è quella del 12 febbraio 1951, vi parteciparono nove sartorie d’alta moda di Roma e Milano e due boutique con capi di prêt-à-porter.

Si sfila in Sala Bianca. Il successo di questa prima breve fashion week, antesignana di quelle odierne, fu enorme. Tale da obbligarne il trasferimento al Grand Hotel di Firenze. Poco più di un anno dopo, il 22 luglio 1952, in occasione del quarto Italian High Fashion Show (denominazione data alla manifestazione sin dall’esordio), la cornice è ancor più prestigiosa: la Sala Bianca di Palazzo Pitti. Oggi luogo consacrato a culla del made in Italy. Ma resta mitica quella “prima volta” a casa Giorgini, dove il marchese porta cinque compratori americani di importanti department stores, tutti provenienti dalle sfilate di Parigi: all’epoca capitale assoluta, dopo la consacrazione avvenuta nel 1947 con il New Look di Dior. Li conquista con le creazioni di Carosa, Fabiani, Fontana, Marucelli, Noberasco, Schubert, Simonetta, Vanna e Veneziani. Giorgini riesce a compiere un miracolo. Ricorda sempre Fairchild, tra gli ospiti di quelle prime sfilate “domestiche”. «Ci prese per mano e ci portò in quel nuovo mondo dove uomini e donne in abiti colorati correvano sulla Vespa. Avvinti gli uni agli altri. Come sembravano giovani e sexy nei loro vestimenti italiani! E tutti noi, ben presto, ci innamorammo di quell’eleganza»: il film Vacanze romane con Audrey Hepburn uscirà nelle sale due anni dopo.
Antesignano delle strategie di impresa e marketing, portavoce nel mondo dell’imprescindibile valore del nostro heritage, Giorgini ha avuto la capacità di far scoccare la scintilla di quella che oggi è l’essenza del made in Italy, l’incontro tra stile, artigianalità e saper fare. Ha distillato come in un elisir il raffinato gusto italiano dalle radici rinascimentali e umanistiche e lo ha trasformato in ciò che oggi è definito glamour. Non a caso The Glamour of Italian Fashion è il titolo di un’attesa e imminente mostra a Londra in cui, per la prima volta, si celebra il made in Italy, fascinoso viaggio nel tempo che va dal 1945 a oggi. «Una celebrazione dell’immenso contributo dell’Italia al mondo internazionale della moda», spiega Martin Roth, direttore del Victoria & Albert Museum, sede dell’esposizione. Aggiunge. «Protagonista sarà lo sviluppo del leggendario stile italiano, attraverso ogni suo aspetto, da quello creativo – particolare attenzione ai dettagli meno noti –, a quello economico, strettamente collegato anche alle industrie tessili». Tra i punti focali dell’esposizione proprio il ruolo avuto dal “marchese fashion”, figura dai contorni mitici e non ancora così conosciuta e valorizzata come dovrebbe.
Ma come è riuscito un nobiluomo così racé, a far sì che la moda italiana si trasformasse in un elemento trainante del Paese? Fa conoscere all’estero la nostra capacità artigianale. A 24 anni, nel 1923, inizia a lavorare nell’ufficio di esportazioni del cugino. Dopo due anni si mette in proprio e il suo traguardo è valorizzare oltreconfine le eccellenze del nostro saper fare, ancor prima del ritorno economico finale legato alle sue attività. Così passa al setaccio la Penisola e «crea un catalogo dove trovano posto il meglio dei vetri e dei merletti, dei ricami e della ceramica, delle lavorazioni in paglia e degli argenti. Porta tutto negli States e crea un saldo e articolato network commerciale e sociale, entrando in contatto persino con influenti organizzazioni come Ymca, Young Men’s Christian Association», spiega Neri Fadigati, nipote di Giorgini e presidente dell’Archivio in cui è conservato il materiale legato all’attività del nonno, da cui sono tratte le immagini inedite pubblicate da Sette. Aggiunge. «Dai suoi viaggi portava indietro i disegni di ciò che volevano i clienti d’Oltreoceano per poi adattare ad hoc la produzione italiana. A Villa Torrigiani (dove Fadigati è cresciuto, ndr) mio nonno oltre a organizzare le prime sfilate allestì anche un’esposizione di prodotti artigianali».
Le prime due edizioni dell’Italian High Fashion Show incrinano lo strapotere francese sulla moda. Provocarono una strambata che portò a una rinascita della moda italiana. Firenze può minacciare Parigi? e Parigi può ignorare Firenze?, s’interrogava nell’autunno del 1951, il servizio di copertina di L’Europeo titolato La guerra dei sarti.
Al di là dell’eterno contenzioso per la supremazia fashion tra Francia e Italia – tuttora in corso –, nel servizio era posto l’accento su alcune delle nostre carte vincenti: la sartorialità, la manualità, le materie prime. Nel testo veniva anche riportato un commento di Carmel Snow, la potente direttora di allora di Harper’s Bazaar. «Ogni vestito italiano sembra disegnato da un intelligente artigiano per un sempre diverso tipo di donna. Nei colori delle stoffe si ritrovano i diversi verdi dei campi e degli alberi della campagna umbra e toscana; mentre i sandali leggerissimi sono gli stessi dei personaggi di Benozzo Gozzoli; i vestiti sportivi ricordano quelli dei paggi dipinti nel Rinascimento».

Sartorialità da salvaguardare. Arte e artigianato. «Connubio perfetto. Da cui nasce il gusto per il bello, parte del dna italiano e di cui la moda è tra le massime espressioni», sottolinea Jacopo Etro, direttore creativo accessori e tessuti della griffe di famiglia che affonda le radici nel tessile ed è tra i nomi protagonisti della mostra londinese. «I tessuti sono fondamentali nel realizzare un abito. La loro produzione nodale a livello economico: pensiamo solo ai distretti di Como e Biella per la seta e la lana», precisa Etro. «Un patrimonio inscindibile dalla nostra sartorialità, specie quella legata all’abbigliamento maschile. In queste stagioni sempre più celebrata e alla ribalta». Conferma il fiorire di Scuole dei mestieri, rivolte alle nuove generazioni. Esempio quella creata a Solomeo da Brunello Cucinelli, dopo aver acquisito la Sartoria d’Avenza per il su misura da uomo. Progetti pensati per tramandare la nostra arte del saper fare, vincente all’estero.
Investire sui giovani, fare talent scouting. Oggi se ne parla di continuo. Ma erano argomenti già al centro del virtuoso “Sistema Giorgini”. Lo conferma e ricorda Roberto Capucci, oggi considerato tra i padri dello stile italiano. Giorgini scopre Capucci, all’epoca ventenne, grazie a un’amica comune, la giornalista Maria Foschini: mostra a Bista i disegni del giovane sarto e subito lui lo invita a sfilare, nel luglio 1951, durante il ballo conclusivo della seconda edizione. Sarà una sorpresa per gli ospiti. Rovinata però dai colleghi più affermati. Mettono il veto. «Giorgini fece indossare i miei abiti da sera alla moglie e alla figlia. Fu un trionfo. La mattina dopo stampa e compratori vollero vedere tutta la collezione», ricorda Capucci. Continua. «Gli devo tutto. Non l’ho mai dimenticato. Come un suo prezioso consiglio: lavorare in libertà senza farsi condizionare dal mercato, dal timore di non essere alla moda». Oggi gli abiti di Capucci sono considerati vere sculture in tessuto.

Pensare ai giovani. Alla fine dell’edizione in cui debuttò Capucci, il giro d’affari stimato fu pari a 100 milioni di dollari di allora. Nel giro di un decennio i compratori dai cinque iniziali arrivarono a 440; nel 1957 l’Italia è il principale esportatore europeo di tessuti e abbigliamento nell’America del Nord. Sono gli anni della Dolce Vita e di Hollywood sul Tevere, le sartorie di alta moda stanno lasciando il posto alle griffe di prêt-à-porter. A partire dall’inizio degli Anni 70 un altro giovane scoperto da Giorgini, Beppe Modenese, incrementa le manifestazioni legate al prêt-à-porter e le sfilate puntano su Milano. Nel 1971, a 72 anni, scompare Giorgini. Amareggiato. I nuovi protagonisti del settore avevano chiesto al suo Sistema cambiamenti. Nel 1965 lo invitano a chiudere forzatamente la sua avventura. Lasciando ad altri il timone. Ma Giorgini aveva seminato bene. Confermano queste sue parole, profetiche, negli anni della Sala Bianca. «Il nostro compito è quello di mettere in moto le cose, cercando di rinvigorirle con una dedizione senza riserve. Perché dobbiamo pensare ai giovani che, domani, dovranno giustificare questa nostra fatica e sentirsi spronati a migliorarla».
Gianluca Bauzano