Antonio D’Orrico, Sette 21/3/2014, 21 marzo 2014
TUTTI DA TULLIO SABATO SERA. IL RITRATTO-AUTORITRATTO DELL’UOMO CHE HA MESSO LE FACCE ALLA CULTURA ITALIANA DELL’ULTIMO MEZZO SECOLO. UNA STORIA CHE COMINCIÒ IN UN CLUB PRIVÉ DI LAMBRATE
[Tullio Pericoli]
Tullio Pericoli abita in una zona di Milano che nella mia personale toponomastica e geografia della città ho chiamato il quartiere Del Buono, nel senso di Oreste, lo scrittore, giornalista e tutto il resto, che viveva da queste parti in un appartamento sotto a quello del banchiere Enrico Cuccia (formidabili quegli anni). Lo studio di Pericoli è proprio come ci si immagina lo studio di un disegnatore: tanti tavoli e piani d’appoggio, tanto legno, finestre luminose, risme di fogli, strumenti di cartoleria. Il nome di Del Buono spunta subito nella conversazione quando Pericoli racconta i fumetti che cominciò a fare con Emanuele Pirella, grande firma della pubblicità. A quell’epoca l’Accademia dei Lincei del fumetto in Italia era la rivista Linus diretta da Del Buono. A lui, non senza qualche timore, si erano rivolti i due sapendo che a Linus non gradivano particolarmente i fumetti nostrali. Invece Del Buono si entusiasmò (era uno che sapeva entusiasmarsi ed entusiasmare) e li pubblicò sul primo numero raggiungibile. Cominciò così la seconda carriera di Pericoli & Pirella e si formò una coppia diventata proverbiale (come Garinei & Giovannini per il teatro di rivista e Fruttero & Lucentini per la letteratura) e che ha firmato tra tante cose anche le più belle tavole di satira culturale viste in Italia, quelle di Tutti da Fulvia sabato sera.
«Però all’inizio non volevamo andare da Del Buono, ci sembrava chiedere troppo. Così portammo le nostre tavole a Mario Spagnol, editore di una rivista che voleva fare concorrenza a Linus. Spagnol le guardò e disse di lasciargliele perché magari sarebbero tornate utili come riempitivo per tappare qualche buco al momento dell’impaginazione. La sua risposta non mi piacque. Riempitivo? Così andai da Del Buono».
La storia di Tullio Pericoli attraversa molte storie dell’editoria, del giornalismo, dell’industria culturale e dell’arte a Milano a partire dal 1960 a oggi, ma lui finora non l’aveva molto raccontata. Era stato discreto, schivo. Poi tre anni fa è uscito un bel libro di Silvia Ballestra (Le colline di fronte, Rizzoli), una biografia dell’artista ma pochi lo hanno capito e saputo anche perché i librai (che spesso, come mi capita di riscontrare con sempre maggiore e preoccupante frequenza, sono i più grandi nemici dei libri) non lo avevano esposto nel bancone delle novità o della narrativa o delle biografie ma nei periferici scaffali riservati ai volumi d’arte. È un errore ricorrente che ha penalizzato, anni fa, anche un altro, bellissimo racconto di memorie (I miei mostri del grande regista Dino Risi, Mondadori) che fu collocato nel settore delle pubblicazioni di cinema mentre si trattava di un esaltante romanzo italiano dal vero.
Ora è uscito un altro libro di Pericoli, Pensieri della mano (pubblicato da Adelphi), che non è un libro di disegni (come lo splendido I paesaggi, uscito sempre da Adelphi l’ottobre scorso), anche se qualche disegno lo contiene, ma è un’autobiografia artistica in forma di conversazione con Domenico Rosa. Se uno mette assieme Le colline di fronte e Pensieri della mano ha un ritratto-autoritratto totale di Tullio Pericoli, «il pittore sui giornali» secondo una autodefinizione che gli piace molto. Ed è per fare questo ritratto-autoritratto che sono venuto a trovarlo nel suo studio di ringhiera in zona Del Buono.
Io alternerei, se è d’accordo, una domanda biografica a una artistica e comincerei il giorno che lei nel 1961, venticinquenne, sbarca alla stazione di Milano con una lettera in tasca come D’Artagnan al suo arrivo a Parigi nei Tre Moschettieri.
«La lettera era di Cesare Zavattini che ero andato a trovare, senza conoscerlo, a Roma. Io disegnavo da tempo, da quando ero bambino, poi avevo lavorato con i giornali (Il Messaggero, nell’edizione di Ascoli) e fatto anche una mostra di pittura. Sentivo che era il momento di tentare il grande salto. Zavattini fu generosissimo. Passò una giornata con me e alla fine emise il verdetto. Dovevo andare a Milano dove c’erano i giornali e le case editrici e non a Roma. E a Milano dovevo cercare di Giancarlo Fusco al quale scrisse una lettera che mi consegnò. Fusco era allora una delle firme del Giorno che era stato una rivoluzione nel mondo dei quotidiani. E così andai a casa sua. Mi aprì in mutande e, a una prima occhiata, mi prese per un giapponese o un vietnamita. Poi guardò, per modo di dire, i disegni e il suo commento fu “A Zavattini non si può dire di no”. Mi invitò a cena. In realtà, mi portò a Lambrate, in un club privé, l’Anthony, dove le entraîneuses lo accolsero come gli italiani avevano accolto gli americani all’epoca della Liberazione. Champagne, risate. Io mi guardavo intorno, venivo da Colli del Tronto, un paesino di nemmeno duemila abitanti, e adesso mi trovavo in un night milanese dove nell’ombra si aggiravano dei loschi tipi armati di rivoltella. Questa vita da nottambulo andò avanti per un paio di mesi finché Fusco una volta, quasi all’alba, mi portò al Giorno. Il caporedattore Angelo Rozzoni guardò i disegni e mi fece cominciare. Mi affidarono quasi subito i racconti che uscivano la domenica, racconti di Calvino, di Buzzati, di Mastronardi, e anche le inchieste leggendarie di Giorgio Bocca sull’Italia del boom».
Lasciamo per un attimo la vita e passiamo all’arte. In Pensieri della mano (bel titolo che allude a una certa autonomia, a un libero arbitrio, quasi, della mano quando disegna), lei celebra l’invenzione della linea.
«Per me la linea assieme alla ruota e al fuoco è una delle tre grandi scoperte o invenzioni primordiali. Cerco spesso di immaginare l’emozione dell’uomo che per primo fece un disegno. Ancora maggiore sarà stata l’emozione della prima persona che ha visto il primo disegno. Cosa avrà pensato? L’impressione deve essere stata fortissima, quasi uno shock. La linea in natura non esiste».
Come Flaubert disse di Madame Bovary, lei nel libro dice: «La linea sono io».
«È una battuta, ma non è solo una battuta. Ho cercato di ricostruire la storia della linea. Lo sa che ha anche attraversato un periodo di terapia psicoanalitica? È stato il grande Saul Steinberg, il disegnatore delle classiche e leggendarie copertine del New Yorker, che ha fatto distendere la linea sul lettino e l’ha confessata. La linea (come tutti noi) è nevrotica, fragile, insicura, ha le sue debolezze, non sa dove andare, non sa bene chi è».
A questo si riferisce nel libro quando parla, in una maniera che incuriosisce, della psicoanalisi delle immagini?
«Sì, perché non c’è stato un Sigmund Freud delle immagini. A differenza della scrittura, la pittura contiene qualcosa che non conosciamo. Noi sappiamo di più delle parole. Le parole galleggiano mentre le immagini stanno sotto. La psicoanalisi delle parole è stata fatta, quella delle immagini ancora non del tutto. Eppure dipendiamo moltissimo dalle immagini. Ormai quasi più che dalle parole».
Restando in ambito terapeutico, lei ha qualcosa da osservare sulla figura attuale del critico.
«Sempre più nel mondo dell’arte contemporanea invece di dire “critico” si dice, anglosassonamente, “curator”. Non è una scelta senza conseguenze. Se c’è un curatore vuol dire che nell’arte contemporanea c’è qualcosa da guarire, c’è una malattia. Le parole si vendicano sempre. Ce lo ha insegnato proprio Freud».
La leggerezza calviniana dei suoi disegni (e evoco Italo Calvino non a caso, sapendo della vostra lunga amicizia), la loro luminosità, può trarre in inganno. Dietro la sua linea ci sono zone d’ombra, c’è il buio. Lei cita Kafka a proposito del suo lavoro.
«Cito il racconto Nella colonia penale dove viene eseguita una condanna a morte con una macchina che incide lentamente il testo del comandamento trasgredito sul corpo del condannato. Un’immagine forte. In generale, credo sempre di più che noi terrestri ci comportiamo così: incidiamo sulla Terra come se la stessimo uccidendo, tracciando i nostri solchi senza nessun senso del rispetto e della pena».
Facciamo un passo indietro, come nei romanzi di appendice. Sbarcato a Milano, passati i primi tempi a tirar mattina con Fusco, entrato al Giorno, lei finalmente trova casa. Ma succede qualcosa alla maniera di Edgar Allan Poe, qualcosa che con una immagine ci restituisce in pieno il sapore di un’altra Milano, quella nera, scerbanenchiana. È l’immagine di un appartamento con le finestre sbarrate.
«Avevo affittato una casa in via San Gregorio. Era un quinto piano. Notai qualcosa di strano. Al primo piano c’era una casa con le persiane chiuse, dava l’idea di una casa sigillata in eterno. Mi informai ma nessuno seppe (volle) darmi una spiegazione. Alla fine lo scoprii: la casa era quella dove era avvenuto il massacro compiuto da Rina Fort, la belva di via San Gregorio, uno dei più efferati delitti del dopoguerra, raccontato magistralmente da Dino Buzzati nelle cronache del Corriere. Oggi, magari, il nome di Rina Fort non dice niente a nessuno ma allora era una cosa che sconvolgeva. Chissà che fine ha fatto Rina Fort?».
Le posso dare una mano. Quando ero cronista a Firenze una sera mi mandarono in una palazzina nei pressi di via della Mattonaia, dove c’era il carcere. Era una casa di accoglienza, tenuta da suore di carità, riservata alle ergastolane che, raggiunta una certa età, venivano trasferite dal carcere a quella residenza. Ero stato mandato lì perché una delle ospiti delle suore era morta. Si chiamava Caterina Benedet, un nome finto, si trattava in realtà di Rina Fort. Sarà per la sua influenza, caro Pericoli, ma chiacchierando abbiamo disegnato una specie di spirale e siamo tornati, attraverso la belva di San Gregorio, alla colonia penale di Kafka. Ma ora è il momento di parlare dei ritratti, la specialità per cui lei è più celebre. Parlando di ritratti in Pensieri della mano lei risolve uno dei grandi enigmi della storia dell’umanità.
«Oddio, a che cosa si riferisce?».
A quando spiega perché nel momento in cui ci viene presentata una persona non afferriamo mai bene il nome. Lei dice che succede perché davanti a una persona sconosciuta la nostra prima reazione non è di ascoltare le parole che dice ma di guardare la sua faccia, di cercare di imprimercela bene in mente.
«Credo che funzioni proprio così. Penso che sia un istinto atavico. Ci dimentichiamo i nomi perché stiamo cercando di guardare la faccia. Non facciamo caso all’anagrafe perché la relazione si crea con gli occhi. E questo mi fa riflettere su che cosa c’è nel nostro cervello che non sappiamo e un po’ mi spavento. Quando mi preparo a fare un ritratto cerco, disperatamente, il dettaglio che fa unica una faccia e la rende diversa da tutte le altre facce che ci sono al mondo. Quando non trovo quel dettaglio mi arrabbio perché non posso fare il ritratto. Ha presente quei giochetti che fanno i giornali d’estate quando pubblicano un particolare di un volto, la bocca, per esempio, uno spicchio di fronte, e bisogna riconoscere la persona dalle labbra, dal pezzetto di fronte? Quei giochetti sono la prova che è un dettaglio a fare di una faccia quella faccia».
Ma nei suoi ritratti non c’è solo il volto c’è anche, come dire, il corredo (materiale e spirituale) di una persona.
«È un tipico procedimento narrativo. Per rappresentare l’ansia sempiterna di Carlo Emilio Gadda, quella che gli infelicitò la vita ma forse gli felicitò la prosa, ho cercato di restituire nel mio ritratto una persona in perenne disagio, a partire dal suo modo di indossare i vestiti. Gadda dava l’impressione di essere infagottato dentro la sua giacca, il suo cappotto. E per rendere l’idea di come Samuel Beckett scrivesse, del suo stile, ho disegnato i suoi capelli come se fossero un vortice».
In Pensieri della mano lei accenna anche a due possibili modi di fare la storia dell’arte distinguendo i pittori in pittori che si devono guardare da lontano e pittori che si devono guardare da vicino.
«L’arte si è allontanata. Un quadro di Antonello da Messina si deve vedere da vicino da poche decine di centimetri, come tenendo in mano un libro. Un Vermeer si guarda da vicinissimo, se no non si capiscono tante cose (ma adesso a Bologna hanno messo La ragazza con l’orecchino di perla in una specie di catafalco e non ci si avvicina a più di dieci metri). Invece un taglio di Fontana si guarda da una certa distanza, è inutile avvicinarsi di più. Un’opera come Mozzarella in carrozza di De Dominicis, dove c’è una grande carrozza nera ottocentesca con dentro, sui sedili, una mozzarella poggiata su un piattino è quasi inutile vederla perché la carrozza è una carrozza, la mozzarella una mozzarella, il piattino che contiene la mozzarella è un piattino, e quello che conta è l’idea, non la realizzazione».
Lei ama anche distinguere i pittori in pittori orizzontali e pittori verticali.
«Un pittore orizzontale è Morandi, un pittore verticale è Canaletto. I quadri di Canaletto sembrano fatti veramente da un geometra, non senti niente della mano che l’ha fatto. In Morandi, invece, senti l’anima nelle dita, è questo che deve dare la pittura. La gente parla piano davanti ai quadri di Morandi, sembra quasi che a parlar forte qualcosa possa venir giù nel quadro».
A quanto ho capito leggendo il libro non le piace De Chirico.
«No, ho solo specificato che dal punto di vista tecnico De Chirico non era un grande maestro. Ha avuto delle visioni meravigliose ma la sua pittura è un po’ stentata, un po’ faticosa. Ha il cervello come Rembrandt ma ha la mano un po’ frenata. Se guardi certe figure, se guardi i piedi vedi che non ce l’ha fatta, ha lasciato le cose così. Non lascia libera la mano sulla tela dandole un po’ di cervello. Quando si disegna è come avere due motori, quello mentale e quello manuale. Mentalmente De Chirico è altissimo, straordinario, manualmente è assai più modesto».
Lei ama molto gli scrittori e la sua carriera ne è una straordinaria dimostrazione. Ha amato molto anche Lucio Mastronardi, un amore difficile visto il carattere dello scrittore di Il calzolaio di Vigevano.
«Mi piaceva quello che scriveva così, senza conoscerlo, andai a bussare a casa sua a Vigevano e nacque un’amicizia. Aveva aspetti buffi. Si era innamorato della figlia di un potente critico letterario e per regalo le mandò una cassetta di liquori, quelle confezioni natalizie, con la Vecchia Romagna Etichetta Nera, il brandy che creava un’atmosfera. Non era un regalo per una ragazza ma lui aveva comprato la cosa più costosa che aveva trovato in un bar di Vigevano. Un ricordo buffo di un personaggio assolutamente tragico. Penso ai suoi tentativi di suicidio fino a quello finale. Ora vedo che Luciano Bianciardi, un altro ribelle, un altro anticonformista di quell’epoca, viene spesso e giustamente citato. Mastronardi invece no. Silenzio. Non è giusto, fu uno scrittore straordinario».
Antonio D’Orrico