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 2014  marzo 21 Venerdì calendario

SEMPLIFICARE, VENT’ANNI DOPO


«Sarà un computer a insegnare ai burocrati a scrivere in modo comprensibile. Tranquilli, signori impiegati dei ministeri, non ci sarà nessun corso interattivo multimediale della nuova generazione, nessuno di voi dovrà sottoporsi a ore di estenuanti lezioni davanti a un monitor asettico e invadente, nessuno sarà bersagliato da codici e neologismi da imparare a memoria. Sì, perché sarà lo stesso “cervellone”, probabilmente, a suggerire con cortesia e riservatezza le frasi giuste e i vocaboli adeguati da inserire nella montagna di pratiche e protocolli che ogni giorno i cittadini italiani sono costretti a digerire». I lettori contengano il loro entusiasmo: la #svoltabuona di Matteo Renzi non c’entra un fico secco. Quello che avete appena letto è l’incipit di un pezzo di Marco Gasperetti, sul Corriere della Sera del 26 gennaio 1994. Venti anni fa. Abbondanti. «Dopo l’appello lanciato dal ministro della Funzione pubblica Sabino Cassese per una “grammatica della chiarezza” anche nei vetusti uffici dello Stato e la nascita del primo e rivoluzionario “codice di stile”, un papier di oltre settemila termini da leggere tutti d’un fiato, piombato tra capo e collo di funzionari e impiegati», proseguiva l’articolo, «potrebbe essere l’informatica ad annullare per sempre l’oscuro linguaggio dello Stato: il burocratese appunto». Marco Varone, l’informatico responsabile del progetto, spiegava: «Ci hanno spedito il codice di stile messo a punto dal ministro Cassese e ci hanno chiesto un programma in grado di riconoscere frasi e nomi scritti in burocratese e correggerli. Devo dire che siamo rimasti un po’ sbalorditi dai termini. Abbiamo trovato parole come attergare, cioè scrivere a tergo dietro il documento e ancora orribili “disdettare”, “all’uopo” e un’incredibile sequela di arcaismi». Insomma, c’era da “lavorare sodo”. Ma “seguendo i consigli linguistici del manuale Cassese”, insisteva l’ingegnere, “nel giro di un paio di mesi” il software poteva essere pronto.

UNA SENTENZA CHE FECE RUMORE. Pochi mesi prima, alla fine di ottobre del 1993, la Corte Costituzionale aveva emesso una sentenza rivoluzionaria: aveva assolto due cittadini che avevano violato la legge senza esserne consapevoli perché questa legge era così contorta che non ci si capiva niente. Insomma, l’ignoranza della legge non giustifica il reato, ovvio. Ma come scrisse allora Maria Antonietta Calabrò «al dovere dei cittadini di conoscere e rispettare la legge deve corrispondere quello dello Stato democratico di farla conoscere. La legge infatti non può essere un Moloch cui immolare la persona umana facendola retrocedere dalla posizione prioritaria che essa occupa nella scala dei valori “costituzionalmente tutelati”, perché tutto ciò equivarrebbe a “scardinare le fondamentali garanzie offerte dalla democrazia”». Fece rumore, quella sentenza: «Ha una portata straordinaria: mette in crisi l’assolutezza del principio fondato sulla inescusabilità della legge penale», commentò il giurista Leopoldo Elia, presidente della commissione Affari costituzionali. «Ammette l’ignoranza inevitabile come esimente, e da ciò nasce la necessità per il legislatore di adeguare le norme». Vale a dire semplificarle. E il suo collega Claudio Vitalone, senatore e magistrato, annuì pensoso che la decisione della Consulta era “conforme a principi di alta civiltà giuridica” ed era “un monito per il legislatore” perché “l’ignoranza della legge spesso trae radici da una produzione normativa alluvionale, disorganica e da testi ambigui che rendono incerta persino l’interpretazione giurisprudenziale”. Insomma: «La Corte Costituzionale ha tracciato la strada per un intervento del parlamento». E intorno era tutto un coro: giusto, basta, non se ne può più, occorre semplificare… Venti anni dopo sono ancora lì: impantanati tra “attergare” e “obliterare” e “all’uopo”. A ripetere che giusto, basta, non se ne può più, occorre semplificare.