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 2014  marzo 21 Venerdì calendario

PINO UVA E GLI UOMINI IN DIVISA


Sui pantaloni, all’altezza del cavallo, hanno trovato una chiazza di sangue lunga 16 centimetri e larga 10, più altre 77 macchie ematiche a spruzzo che arrivano fino alle scarpe. Emorragia da emorroidi, sostengono in procura. Morte da tortura, per Fabio Anselmo, l’avvocato scelto dalla famiglia. La differenza che passa tra le due ipotesi è quella tra il dolore e l’orrore, tra un lutto accidentale e una “lezione a un ubriaco” finita male. Da quasi sei anni, il “caso Uva” sta in bilico su questa linea di confine. Sono stati processati tre medici, poi prosciolti. Adesso stanno per finire davanti a un giudice 2 carabinieri e 6 poliziotti, fino a ieri sospettati solo per lesioni lievissime. A loro carico, ipotesi di reato che vanno dall’omicidio preterintenzionale (volevo fargli del male ma non fino al punto di), all’arresto illegale, al pestaggio (“indebita e violenta manomissione del corpo altrui”), al colpevole ritardo nell’affidarlo alle cure di un ospedale. Quasi tutto a rischio prescrizione, visto il tempo passato dai fatti. Quasi.
Sulla lapide di Giuseppe Uva detto Pino nel cimitero di Caravate, una ventina di chilometri da Varese e 500 metri in linea d’aria dalla Gemonio di Umberto Bossi, c’è un Cristo in croce, una foto dove sorride felice con un pezzo di panettone in mano, e una gru a sbalzo color bronzo. Il gruista era il suo ultimo lavoro, ma ci andava a strappi, mollava e ritornava. Uno spirito libero, che dormiva a casa di un amico, di qualcuna delle sorelle, della donna del momento, qualche volta in albergo perché gli piaceva molto l’idea. Come gli piaceva bere, ballare, far casino, tenersi i capelli lunghi raccolti in una coda o sciolti e mossi, a seconda dell’umore.

Dopo la fine del matrimonio con Maria che se n’era andata col suo miglior amico, un commercialista, e questo l’aveva schiantato fino a spingerlo a fare il vagabondo per un anno e più, era tornato con l’aria di chi ha deciso di viversela un po’ alla giornata.
Il sospetto più atroce è che se Giuseppe Uva fosse stato un bancario o un insegnante, tutto quello che stiamo per raccontare forse non sarebbe successo, o non sarebbe successo così. E soprattutto i parenti che gli sono sopravvissuti non starebbero ancora aspettando di sapere cosa ha ucciso un uomo sano e forte di 43 anni e chi l’ha ridotto nelle condizioni pietose in cui è stato trovato in una stanzetta al piano meno due dell’ospedale di Circolo di Varese, non l’altro ieri ma un mattino del giugno 2008, al termine di un venerdì notte da paura. Per descrivere quella notte e l’alba successiva, basterebbe la cronaca. Il problema è che non ce n’è una sola. Ce ne sono due, opposte.
Quella ufficiale, nel senso che è stata assunta come vera dal pubblico ministero Agostino Abate che gestisce il caso dal principio, comincia come l’altra con una bravata. È venerdì 13 giugno di un’epoca che sembra lontanissima. Da poco più di un mese si è insediato il quarto governo Berlusconi. Ministro dell’Interno è Roberto Maroni, leghista, orgoglio di Varese come del resto Mario Monti.
Giusto a Varese, Pino Uva è a casa dal suo amico Alberto Bigioggero, detto “il principe”, diplomato in massoterapia, di professione variabile, da manovale a comparsa o figurante (picco di carriera: è quello con la camicia hawaiana in “Che bella giornata” di Checco Zalone). Vedono una partita della nazionale in tv, poi vanno per locali a tirar tardi. L’ultimo, Le Scuderie di via Cavallotti, chiude alle 3. I due, piuttosto ubriachi, non trovano di meglio che spostare transenne in mezzo alla strada e deviare il traffico. Passa una Gazzella dei carabinieri, invitano la coppia a smettere. Ma Uva reagisce male, in parole e opere. Urla insulti (“toglietevi la divisa e poi vediamo”)“, i vicini si affacciano protestando, lui comincia a dare calci e pugni ai loro portoni. A quel punto, “onde evitare che la vicenda degenerasse”, i carabinieri chiamano in aiuto una Volante della polizia, ne arrivano due per sbaglio, poi se ne aggiungerà anche una terza (uno spiegamento di forze un po’ eccessivo per due balordi, visto che la città rimane a lungo sguarnita del presidio esterno di vigilanza, ma così è). Caricano Pino e il Principe sulle auto e li portano nella caserma di via Saffi per il verbale, ore 3.50 (va sottolineato che questo orario, e gli altri successivi, sono quelli della versione ufficiale). Ma qui le cose degenerano per davvero.
Uva dà di matto, il lunedì successivo ha l’esame per riottenere la patente, teme che un verbale per alcolismo ne comprometta l’esito, perde quel poco di controllo di sé che aveva, rovescia una scrivania, poi “dalla sedia dove sedeva si dà una spinta all’indietro con i piedi, cadendo unitamente alla stessa per terra battendo il capo dapprima contro il muro e quindi volontariamente sul pavimento con il chiaro intento di lesionarsi”. Fortuna che un agente pietoso infila la scarpa tra la testa di Uva e il pavimento per attutire un po’ i colpi. Anche se in otto, gli uomini in divisa non riescono a contenere il suo forte stato di agitazione e convocano la guardia medica nella persona del dottor Augustin Desiré Noubissie che prova a fargli un’iniezione di calmante. Uva la rifiuta in malo modo, come rifiuta l’aiuto di un altro medico chiamato a rinforzo, Andrea Obert. Si decide di chiamare l’ambulanza del 118, che carica Pino non senza fatica (uscendo dà, darebbe diciamo così, un’ultima testata alla porta a vetri) e alle 5.48 lo deposita al pronto soccorso dell’ospedale dove, malgrado venga catalogato in “codice verde”, cioè non urgente, tre medici lo imbottiscono di farmaci (Talofen, Farganesse, Tavor, En) e lo trasferiscono in psichiatria, dove cadrà in un sonno profondissimo e poi, dalle 10.30, eterno. Nel frattempo gli vengono tolti gli slip intrisi di sangue, che spariscono dalla scena per sempre. Causa del decesso, secondo il pm Abate: “La combinazione, continuata per ore, di sedativi con l’alto tasso alcolico riscontrato nell’organismo”. Da qui, l’accusa, rivelatasi a processo non fondata, contro i medici.
Il sostituto procuratore Agostino Abate da Salerno è in magistratura da 31 anni e a Varese dal 1984. Ha alle spalle importanti inchieste, da Tangentopoli alla ’ndrangheta. Ha vinto una causa milionaria con Umberto Bossi, irritato perché Abate aveva messo sotto accusa tre sindaci di Varese per corruzione: minacciò di “raddrizzargli la schiena”. Essendo il magistrato poliomielitico, una provocazione infame. Una carriera dunque onoratissima, che però sulla conduzione del caso Uva sta incontrando qualche asperità. Vero che ha resistito a 6 istanze di avocazione (l’ultima presentata dal senatore Luigi Manconi, presidente della Commissione per la tutela dei diritti umani, e liquidata ieri dalla procura di Milano con un laconico “non luogo a provvedere”). Vero anche, però, che si è guadagnato un atto disciplinare di “incolpazione” dalla Procura generale della Cassazione, una segnalazione fortemente critica al Csm dall’ex ministro della Giustizia Cancellieri e soprattutto, l’11 marzo scorso, 16 pagine piuttosto violente nella quali il gip di Varese, Giuseppe Battarino, respinge la richiesta di archiviazione del caso Uva avanzata da Abate, cambia di fatto il fuoco della scena, spostandolo dall’ospedale alla caserma di via Saffi, rileva e denuncia le moltissime incongruenze giudiziarie contenute nel fascicolo 5509 sul decesso di Giuseppe Uva, riscrive gli orari della notte dell’orrore e del dolore, dispone l’imputazione coatta degli otto rappresentanti delle forze dell’ordine e manda tutti davanti al giudice per l’udienza preliminare, anticamera di un nuovo processo.
È di fatto la seconda versione di quel venerdì 13. Anzi, di quel sabato 14, tra le 3 e le 10.30 di mattina. C’è una querela presentata il giorno dopo alla Procura di Varese, in cui Alberto Bigioggero, l’amico che ha condiviso quelle ore con Giuseppe Uva, racconta una storia completamente diversa dalla cronaca ufficiale, in cui l’unica cosa che coincide sono le transenne spostate per fare una pirlata.
I carabinieri che arrivano sul posto sono già molto arrabbiati. Pare anche ci sia stata una rissa recente con qualcuno di loro, in borghese, fuori da una discoteca. E che Uva, poche sere prima, abbia legato con una catena il cancello d’entrata della stazione di Caravate.
Brutta aria. Uno dei carabinieri indica Pino e bestemmiando gli dice: “Proprio te stavo cercando. Adesso te la faccio pagare”. Pino si allontana, quello lo raggiunge, “lo scaraventa sul pavé”, lo carica sulla Gazzella in manette e comincia a menarlo. La scena si sposta nella caserma. Uva viene fatto entrare in una stanza dove c’è un via vai di carabinieri e poliziotti. Alberto resta fuori e lo sente gridare disperato, per tanto tempo gli sembra. “Ahi, basta, ahi, ahia”. E poi rumori sordi di colpi. Allora chiama lui il 118: venite, stanno massacrando un uomo. L’operatore dell’ambulanza chiede conferma in caserma prima di muoversi. Gli rispondono che sono due ubriachi, di non preoccuparsi. Siamo intorno alle 4. Per il giudice Battarino, Uva è stato trattenuto “per un’ora e mezza in un presidio di polizia senza necessità operative”. Per Abate, “21 minuti d’orologio”, di cui solo 7 nella stanza da cui Bigioggero ha sentito le urla. Quando, dopo le 5, l’ambulanza arriva finalmente in caserma, l’amico Alberto viene portato a casa dal padre. Il giorno dopo denuncia quanto visto e sentito, ma passeranno più di 5 anni prima che il pm Abate lo convochi per ascoltarlo. Succede il 26 novembre 2013 ed è un interrogatorio di quasi 4 ore, considerato dal gip “degradante, atto a umiliare il cittadino e avvilirlo, in contrasto con la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo”.
Nonostante Abate non manchi di ricordargli che ha un invalidità del 100 per cento per problemi psichici e che quindi le sue parole hanno un peso relativo, anzi sono inattendibili, quel che Bigioggero cerca di dire è che in caserma hanno fatto del male a Giuseppe Uva, molto male, «perché forse, non saprei con precisione, vede dottore.. lui mi aveva confessato tempo prima di aver avuto una relazione con una donna che stava con uno dei carabinieri ».
Il pm gli intima di smetterla, che non lo lascerà infangare l’onorabilità dell’Arma, che Uva non è stato toccato se non per contenerne la furia autolesionista. La stessa linea, comprensibilmente, dell’avvocato di tutti i nuovi imputati, Luca Marsico, che è anche consigliere regionale lombardo nella giunta Maroni: «Ma certo che sono ancora tutti in servizio, e non cambierà niente neanche col rinvio a giudizio. Sono mortificati da quel che gli è caduto addosso. Vede, nella mia famiglia siamo carabinieri da tre generazioni, mio padre era comandante di stazione e io sono cresciuto in una caserma. Ho già presentato ricorso in Cassazione perché so che quegli 8 uomini tutte le sere possono tornare a casa e guardare i loro figli negli occhi con la coscienza più che a posto. Sono solo vittime di una campagna mediatica».
Il riferimento, implicito, è a Fabio Anselmo, legale della famiglia Uva come già lo è stato per altri casi molto simili (Federico Aldrovandi, Stefano Cucchi, Michele Ferrulli). «Giuseppe è morto per lo stress fortissimo subito in via Saffi unito a un prolasso della valvola mitrale, di cui già soffriva. Il corpo è lì a dimostrare quel che ha patito, compresa l’ipotesi più orrenda: la Tac sul cadavere ha evidenziato aree gassose che sarebbero effetto di una lesione traumatica intestinale e del retto. C’è un particolare nella relazione dei carabinieri che colpisce. Scrivono di modeste escoriazioni alle gambe. Domanda: come facevano a vederle se Uva in caserma aveva addosso i jeans. Forse qualcuno glieli ha tolti? E per fare cosa? E comunque, per il nostro perito, il signor Uva di emorroidi non ne aveva».
La casa di Lucia Uva, a Caravate, la riconosci perché fuori è parcheggiata una 500 bianca coperta di scritte. “Sappiamo chi è stato”. “Via la toga”, all’indirizzo di Abate. “Via la divisa”, rivolto agli 8 neo imputati. La signora ha 53 anni, ha la dignità dei poveri che si sono battuti per esserlo di meno, è la seconda più grande di 5 fratelli. «Giuseppe era il penultimo, gli ho fatto da madre». Da quando ha visto il corpo martoriato del suo Pino all’obitorio, ne è diventata anche la voce. Un morto che parla e combatte attraverso di lei e le sorelle. «Ho vestito diversi defunti: un amico, mio zio, altra gente. So come sono i segni. Quelli che c’erano sul corpo di mio fratello mi hanno sconvolta». E mette sul tavolo, sparpagliandole, tutte le foto che ha fatto al cadavere. «Vede qui, il naso, gonfio e spaccato. E questo buco nero sulla guancia, più un altro sulla spalla: gli hanno spento una sigaretta sulla pelle. L’ho trovato col pannolone, le mutande le avevano buttate perché erano conce. Gliel’ho tolto, l’ho girato. I testicoli… Erano color vinaccia, come se li avessero pestati. E poi la bocca dell’ano: ce l’aveva fuori, capisce. E non c’era merda. C’era ancora sangue. Ma io l’ho detto alla Cancellieri: ministro, mio fratello è stato violentato con un bastone, o qualcosa del genere ». Piange senza piangere. Perché, signora, secondo lei? «Non lo so, forse per qualcosa del passato, forse per qualcosa che conosceva. Pino stava con Giulia, un’albanese che lo serviva e lo riveriva. Non lo so, dottore, perché me lo hanno ridotto così. Non lo so perché massacrano le persone come quelle che il professore ha messo nel libro».
Il professore è Luigi Manconi; il libro, scritto con Valentina Calderone per Il Saggiatore, si intitola “Quando hanno aperto la cella”, una ventina di storie di corpi offesi, tra cui Giuseppe Uva. “C’è un filo che le lega tutte: il comportamento gravemente illegale delle forze dell’ordine. Spesso un pretesto futile basta a scatenare l’abuso di potere, la tentazione di prepotenza. Contro tutto questo, non è facile combattere. Lucia Uva e i suoi si sono mossi con una disperata povertà di mezzi, in un ambiente al minimo indifferente, qualche volta ostile, spesso omertoso. Adesso sappiamo che a causare la morte di Giuseppe non sono stati i farmaci. Bene, è un primo passo. Lentissimo, ma lo è. Andiamo avanti con calma, perché il clima peggiorerà”.
È già partita una raccolta di fondi a favore dei poliziotti coinvolti, pubblicata dal quotidiano “La Prealpina” e promossa dal sindacato Cosip, per sostenere i colleghi nelle spese processuali e fare fronte “al tornado mediatico che ha condizionato la vicenda. Ora non manca occasione di accusare le forze dell’ordine per abusi e violenze, come se vestissimo la divisa per malmenare i cittadini e non per difenderli”.
Lucia Uva legge e abbassa gli occhi. Poi, come se riflettesse tra sé e sé: «Uno di quei poliziotti che hanno preso Pino mi ha detto sottovoce: signora, io ho due figli e una moglie. A suo fratello non l’ho toccato».