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 2014  marzo 21 Venerdì calendario

“UNA MOSCHEA PER L’EXPO” LA BATTAGLIA DELL’ISLAM CHE VUOLE PREGARE A MILANO


MILANO — «Con l’Expo, arriverà la moschea», si diceva. Ma l’Expo è alle porte, con la sua possibilità di cambiare i piani regolatori velocemente, e moschea sì, moschea no, moschea al Palasharp, moschea in un’altra zona, ancora segreta: sono ormai mille le voci che mettono in subbuglio le comunità islamiche. E non solo di Milano. Perché «mettere il capello» sulla possibile moschea di Milano, città internazionale, città della Borsa, della moda, dell’Inter e del Milan (non sottovalutiamo l’impatto delle nostre squadre nella gioventù di altri Paesi), interessa non pochi Stati; e perché chi, per primo, farà pregare in santa pace a Milano i seguaci di Maometto avrà dentro l’islam un grande prestigio. Sotto le polemiche più esplicite, si staglia dunque un gigantesco «non-detto», con tanto di giallo internazionale.
Occorre partire da una domanda semplice: come mai una giunta di centrosinistra, come questa di Giuliano Pisapia, sembra traccheggiare come la peggior giunta di Letizia Moratti? A «stanare» i silenzi del municipio s’è impegnato più di tutti il Caim, il centro che unisce la maggior parte delle comunità islamiche di Milano e dintorni. Il portavoce Davide Piccardo e i suoi giovani mussulmani, alcuni con ottimi titoli di studio, tutti nati in Italia, hanno programmato una mossa «grillina», sin qui segreta: vogliono la diretta streaming del prossimo incontro con il Comune. Vogliono, cioè, fare in modo che i milanesi, ma soprattutto i circa centomila abitanti di fede islamica, e ancor di più i «giovani», tutti coloro che sono nati e cresciuti in Italia, quelli che - attenzione - possono o potranno votare (circa 20mila, non pochi), vedano, ascoltino, sappiano in diretta che il progetto della moschea, di cui si parla dagli anni 90, sia di nuovo a rischio, nonostante l’Expo 2015.
Sinora la «moschea grande, non la grande moschea» era stata sognata in un posto nella periferia Nord, là dove oggi sorgono i relitti del Palasharp. C’è anche un progetto, voluto dagli islamici. Ma non è così per tre ragioni.
La prima è che esiste a Milano una potente alternativa. La sta sponsorizzando, senza far trapelare un fiato, la Giordania: è stato anche individuato un terreno non pubblico, ma privato, adatto per la costruzione. La seconda sta dentro il palazzo del Comune, dove molti, tra assessori e consiglieri, vogliono restituire allo sport di massa la zona del Palasharp, che è vicina alla Montagnetta di San Siro. La terza ragione è più sottile. Il vicesindaco Ada De Cesaris fa sapere che un convento di suore ha vinto una causa sui «confini» (chiunque stia là, deve stare più distante di quanto non sia il Palasharp) e assicura che «tutte le realtà islamiche hanno gli stessi diritti».
Dunque, esattamente chi è che vuole la moschea al Palasharp? La vuole il «coordinamento » (www.cai-milano.it). Ne fanno parte molte e varie realtà, ma una - l’istituto culturale islamico di viale Jenner - viene citata più spesso delle altre. È famosa anche per le inchieste anti-terrorismo che, però, non sono mai andate al di là di poche persone arrestate. Il corso della giustizia ha sempre lasciato il suo fondatore-curatore, Abdel Hamid Shaari, esente da accuse.
Dopo proteste, manifestazioni e richieste, sono stati soprattutto i numerosi fedeli di viale Jenner ad arrivare al piazzale del Palasharp. Là sembrano intenzionati a restare, come dimostra, oltre alla voglia di streaming, anche un video (si trova su YouTube), nel quale parlano i giovani mussulmani. Se si guarda il video con occhio esperto, si nota un’«assenza». Non ci sono neri e nere. E tutte, ma proprio tutte le ragazze che parlano, hanno un velo molto coprente.
Sembra perciò che a invocare la moschea milanese sia l’islam più gradito ai Fratelli mussulmani, il gruppo nato in Egitto, che da sempre si trova tra l’incudine e il martello nelle storie e nelle politiche arabe, ma anche nelle analisi di polizie, servizi segreti, ministeri italiani. «Mi sono ammalato, non ho seguito sino in fondo i lavori, è stato un errore, ma rimedieremo, stiamo preparando altri video», dice il giovane portavoce Piccardo. Anche lui però sa bene quanto la proposta pro-Palasharp non abbia coinvolto almeno due grosse realtà islamiche cittadine.
Una è la moschea di viale Padova, di Asfa Mahmoud, architetto, origini giordane, già premiato dal Comune con l’Ambrogino d’oro, molto rispettoso delle regole. Tant’è vero che un gruppo si è staccato dalla sua moschea, ha creato un luogo di preghiera là vicino, su un terreno abusivo, e lui è in causa con tutti. «La legge - dice - mi darà ragione »: un eccentrico, rispetto ai comportamenti medi italiani.
L’altra realtà è quella marocchina. Che, sulle strade, e nella teologia, sinora, obiettivamente, non ha contato moltissimo.
Ma non è detto, perché a scompigliare le carte soffia ora un forte vento mediorientale.
Sapendo anche questo, il sindaco Pisapia, usando la massima cautela, s’è defilato e ha atteso. Finché, attraverso canali diplomatici, s’è fatto vivo il re della Giordania, discendente di Maometto. In quanto tale, chi avrebbe la capacità se non di aggregare tutti, almeno di non trovare opposizioni dichiarate nella costruzione della moschea? Si ipotizzano aiuti dai marocchini e, per esempio, anche da chi succederà a Milano nell’Expo del 2020: e cioè Abu Dhabi, gli emirati. E c’è il terreno, in zona Certosa, pronto ad ospitare la moschea. Dove? Mistero, ma le comunità islamiche milanesi hanno capito che «solo dopo le elezioni europee, a voti contati, si saprà di più sulla moschea».
Sorgerà in tempo utile per l’Expo? Quanto grande? Con cupola? Oggi non riuscirebbe a rispondere nemmeno un profeta.