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 2014  marzo 21 Venerdì calendario

“MI HANNO ROVINATO LA VITA MA IO NON ODIO NESSUNO”


Denise Cosco ha ventidue anni e una storia dura: sua mamma è stata uccisa da suo padre con la complicità del suo fidanzato. Come potrebbe ancora fidarsi di qualcuno? Eppure questa ragazza minuta che mi sta di fronte dimostra una forza e una voglia di vivere che sembrano un miracolo. Se ne deve stare nascosta, sotto scorta, in una località segreta.
Ha cambiato nome e cognome e a tutte le persone che incontra deve inventarsi un passato. Ma sa sorridere, anche ridere.
Denise Cosco è la figlia di Lea Garofalo, un’eroina della lotta alla ’ndrangheta. Si somigliano, madre e figlia? Sì, si somigliano: «Anche mamma rideva spesso, anzi direi che era una comica», dice Denise. E pure Denise, come sua mamma, ha avuto la forza di ribellarsi: oggi anche grazie alla sua denuncia suo padre Carlo Cosco è in carcere, condannato all’ergastolo con tre compici. Il suo ex fidanzato, Carmine Venturino, deve scontare venticinque anni. Nel giorno in cui Papa Francesco incontra i familiari delle vittime di tutte le mafie, Denise Cosco ci racconta la sua storia.
«È una storia di coraggio ma soprattutto d’amore. In fondo tutto è cominciato da lì: dall’amore di mia madre per mio padre». I carabinieri di Milano le hanno regalato il diario di sua mamma: quaderni trovati durante le indagini. «Non ne conoscevo l’esistenza. È un diario che mamma scrisse quando mi aspettava. Leggendolo si capisce che era super-innamorata di mio padre». Chissà se anche suo padre è mai stato innamorato di sua madre. «Io penso di sì. Ma mio padre aveva anche secondi fini. Mia mamma era la sorella di Floriano Garofalo, il boss di Pagliarelle, il nostro paese, una frazione di Petilia Policastro, in provincia di Crotone. Ho il sospetto che mio padre si sia messo con mia madre per entrare nel giro giusto, insomma per fare carriera nella ’ndrangheta. Lui non veniva da una famiglia mafiosa. Mia mamma invece sì: anche suo padre era un boss, lo uccisero nel 1974, quando mamma aveva otto mesi. Capisce in che ambiente è nata e cresciuta mia madre, Lea Garofalo?
«È rimasta incinta che aveva 16 anni e mezzo. Mi ha confidato che pensò di abortire, perfino di suicidarsi: mio padre aveva già cominciato a trattarla male. E poi mamma sapeva che lui spacciava, e non voleva far crescere una bambina in una situazione del genere. Lui invece, guai se mia mamma avesse abortito: io dovevo essere lo strumento per unirlo ancora di più alla potente famiglia Garofalo. Poi tutto si è ribaltato. Mia mamma partorì sola, in un ospedale di Catanzaro. E io diventai subito la sua ragione di vita. Fino a quando è morta, abbiamo sempre vissuto come una cosa sola.
«Di mio padre invece non ho grandi ricordi. A casa non c’era mai. Un’immagine però mi è rimasta scolpita nella memoria. Nitidissima. Avevo cinque anni. Era notte. Bussarono forte alla porta, poi entrarono con i cani e lo arrestarono. Da allora, rividi mio padre solo in carcere, ai colloqui, perché mia mamma nonostante tutto lo andava a trovare.
«Credo che fu durante uno di quei colloqui che mio padre decise di ucciderla. Anche questo è un momento che ricordo bene. Lei era esasperata, stufa di quella vita, gli disse che voleva lasciarlo. Lui scavalcò il divisorio e le saltò addosso, la riempì di botte. Una donna non può lasciare un boss! Sono sicura che poi, anni dopo, l’ha uccisa per quello sfregio al suo onore.
«Mi voleva bene? Non lo so. Certo mi faceva molti regali; e mi dicono che quando parlava di me gli brillavano gli occhi. Non credo volesse farmi entrare nel suo mondo. Mi sognava laureata, e fidanzata con un bravo ragazzo».
Nel 2001 Lea Garofalo, decisa a uscire da quell’incubo, comincia a collaborare con la giustizia. Entra nel programma di protezione. «La nostra vita cambiò. Dovemmo nasconderci e cambiare nome e cognome. Prima diventai Sarah De Rossi. Poi, quando avevo 15 anni ed eravamo a Udine, ci spacciammo addirittura per sorelle. Ma a me veniva sempre da chiamarla mamma, e allora lei come nome prese Maria, così dopo il “ma...” facevo in tempo a correggermi». Ride di gusto. «Io ero Denise Petalo e lei Maria Petalo. Ridicolo, no? Petalo di Garofalo!».
Il 2005 è un anno cruciale. A Lea viene tolta la protezione perché la sua collaborazione non viene ritenuta efficace. Lea fa ricorso e vince. Ma nell’aprile del 2009 è lei stessa, stanca di non essere creduta, a rinunciare alla protezione. E commette, forse sempre per amore, l’errore di fidarsi ancora una volta del suo uomo, Carlo Cosco. Va a vivere a Campobasso in una casa che lui le prende in affitto. Il 5 maggio Carlo Cosco manda un finto tecnico della lavatrice a rapire Lea per ucciderla. È proprio Denise a sventare il sequestro: «Ero in camera a dormire. Fui svegliata dal rumore di una colluttazione. Vidi un uomo addosso a mia mamma e gli saltai al collo: sono mingherlina, ma lo riempii di botte». Il rapitore scappa, anche perché nell’ordine ricevuto era specificato di lasciar perdere «se trovi in casa anche la ragazza».

Ma il disegno criminale è solo rimandato. Passa qualche mese e Carlo Cosco fissa un appuntamento a Milano con Lea con il pretesto di discutere della separazione. È lei a chiedere di troncare ogni rapporto. È determinata a lasciare l’Italia. Dice: «Lui mi vuole uccidere, e lo Stato non mi crede. Meglio andarsene». È il 24 novembre 2009: all’Arco della Pace, in corso Sempione, Denise saluta la mamma che sta per andare all’appuntamento. Non la rivedrà mai più: la sera stessa Lea viene strangolata e bruciata. È allora che Denise trova il coraggio di ripercorrere la strada della mamma: va dai carabinieri, denuncia la scomparsa e dice tutto quello che sa sul padre.
Il calvario di Denise tuttavia non è ancora finito. Torna in Calabria, dalla zia materna, e trova conforto nell’amore di un giovane che ha tre anni più di lei, Carmine Venturino. La vita pare ripartire. Ma la notte del 18 ottobre 2010 il mondo crolla di nuovo addosso a Denise. È al mare con Carmine quando irrompono in casa i carabinieri. Lui viene arrestato. «È uno degli assassini di tua madre», dicono i carabinieri a Denise mentre la portano, sotto choc, alla caserma di Crotone.
Eppure oggi questa ragazza straordinaria non ha parole solo di condanna per Carmine: «È stato il mio primo fidanzato e non ne ho più avuti altri. Certo mi ha ingannata. Ma sono sicura che ci siamo voluti veramente bene, e che la sua appartenenza alla ’ndrangheta è anche una storia di debolezza, di paura». Carmine Venturino, dopo la sentenza di primo grado, ha confessato. È lui che ha permesso il ritrovamento dei resti di Lea Garofalo, sotterrati alla periferia di Monza.
Quando ci salutiamo, Denise mi dice che deve ringraziare molte persone che le hanno restituito la vita, a partire da don Luigi Ciotti; e che è contenta che il Papa stia per incontrare le vittime della mafia. Poi mi confida: «Il giorno della sentenza non ho gioito. Mi hanno rovinato la vita ma non riesco a odiare nessuno. Neanche mio padre. Ogni tanto provo pena per lui. Non ha capito che cosa si è perso: una famiglia, una figlia, l’amore che avrebbe potuto avere».
Oggi molte donne - mi assicura l’avvocato Enza Rando, che assiste Denise - hanno cominciato a rompere con il mondo della mafia. Dal sacrificio di Lea e dal coraggio di Denise è partita una silenziosa rivoluzione.