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 2014  marzo 21 Venerdì calendario

BENEDETTE MANETTE


Chi si era illuso, come ciclicamente accade, che bastasse un nuovo “uomo solo al comando”, più giovane e decisionista, meno incistato nei soliti giri, per “cambiare verso” all’Italia, dovrà presto ammettere di aver preso un altro abbaglio. Renzi al posto dei Letta (nipote e zio), Monti, B., Amato e D’Alema è un bel passo in avanti. Ma può diventare addirittura un boomerang, se alimenta l’idea che l’Italia possa essere salvata da “qualcuno”. I casi giudiziari degli ultimi giorni lo dimostrano. Ieri abbiamo parlato del duo Barracciu & Genovese: due prove del fatto che il Rottamatore, per prendersi il partito e il governo, è sceso a patti con il peggio del nuovo e del vecchio del Pd, e la giustizia gli presenta già il conto. Oggi ci occupiamo della retata di Milano che decapita Infrastrutture Lombarde, la struttura che appalta i lavori miliardari di Expo 2015. Lì il sistema di potere è tutto berlusconiano, cioè formigoniano e leghista. Ma non è una vicenda locale: è un affare nazionale che investe il governo e la politica tutta. E anche la magistratura, così com’è degenerata negli ultimi anni. I mandati di cattura disposti dal gip di Milano li ha chiesti il pool “Pubblica amministrazione” coordinato da Alfredo Robledo, il procuratore aggiunto che ha denunciato al Csm il suo capo, Edmondo Bruti Liberati, per avergli sottratto fascicoli importanti (soprattutto per le conseguenze politiche e istituzionali). Checché ne dicano i giornaloni, non è una storia di rivalità, gelosie e protagonismi individuali. Magari fosse così. Anzi, di più: sarebbe molto meglio trovarsi di fronte a giudici corrotti che insabbiano le indagini perché pagati dagli imputati: almeno avremmo la certezza che, eliminate le mele marce, nel cestino restano solo mele sane. Qui sono tutte mele sane, eppure è in gioco il ruolo stesso della magistratura. Da anni sentiamo predicare, più o meno da tutti i partiti e le istituzioni fin sul Colle più alto, che deve finire la “supplenza” dei magistrati i quali non devono influenzare la vita pubblica, ma pensare alle conseguenze politiche dei propri atti e scongiurare nuovi “scontri fra giustizia e politica”. Questo messaggio incostituzionale ha fatto breccia non tanto fra le toghe sporche (che, per loro natura, non hanno mai disturbato il potere né acceso scontri), quanto in quelle pulite. Molte hanno recepito i moniti alla pacificazione per motivi di carriera e di quieto vivere, tantopiù con un Csm degenerato in parlamentino correntizio-partitocratico e col nuovo ordinamento giudiziario del 2006 (firmato dal ministro berlusconiano Castelli e dal ministro prodiano Mastella) che ha verticalizzato le Procure in mano a pochi capi onnipotenti. L’idea che il magistrato debba scansare i conflitti con il potere, in un paese dove le classi dirigenti manifestano tassi di devianza criminale da periferia urbana, è passata ai vertici di quasi tutte le procure, anche le migliori. E questo denuncia Robledo: “certi” fascicoli restano nel cassetto del capo o finiscono ad altri pool, inevitabilmente più lenti perché impegnati a fare altro. Così i conflitti si diluiscono e si rinviano: perché le indagini più delicate – che richiedono tempestività e immediatezza – abortiscono o si prescrivono. Così la “stabilità” – il nuovo totem cui tutti s’inchinano – è salva, ma il Paese va in rovina, perché i colletti bianchi continuano a razziare tutto il razziabile e la giustizia, quando arriva, arriva tardi. È quest’allergia patologica ai controlli indipendenti sugli abusi del potere – che accomuna i vertici politici, istituzionali, finanziari e anche giudiziari – il cancro che s’è mangiato l’Italia. E nessuna spending review, nessun giochino sul 3% potrà sanarla. Il rimedio è un sistema di contropoteri forti e indipendenti, sia giudiziari sia amministrativi, che però possono funzionare solo se creano conflitti; e un sistema di poteri che riparta da zero, smantellando le lobby partitiche, burocratiche e manageriali che hanno divorato il Paese. La rottamazione senza epurazioni è solo l’ennesima rivoluzione finta, gattopardesca, da operetta, all’italiana. Abbiamo già dato.