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 2014  marzo 21 Venerdì calendario

È TUTTA LA VITA CHE MI NASCONDO E NESSUNO MI CERCA

[Intervista a Ferzan Ozpetek] –

Roma. Ci sono tutti: il padre, la madre, la nonna, le zie. La casa è quella di Istanbul.
C’è anche il cane che avrà molti anni dopo. Tutti nello stesso tempo, il tempo dell’infanzia, solo che lui è adulto. È tornato nell’infanzia adulto, col suo cane. E non solo ci sono tutti, ma sono tutti giovani. Persino il cane, che è cucciolo, un cucciolo che loro si passano di mano in mano: che tenerezza, guarda che occhioni. Ma da uno all’altro, il cucciolo diventa sempre più piccolo, minuscolo, fino a sparire.
«Non c’è più» si dispera la mamma.
«Che gli abbiamo fatto».
Allora lui sorride e dice, lo dice a sua madre, suo padre, sua nonna, alle zie, lo dice a tutti i suoi affetti: «tornerà, tutti tornano».
Questo è uno dei suoi sogni ricorrenti. Ferzan Ozpetek, 55 anni, in libreria con Rosso Istanbul (Mondadori, pp. 160, euro 16,50), al cinema con Allacciate le cinture, e presto di nuovo a teatro con La Traviata (al Petruzzelli di Bari dal 23 marzo), anche nei sogni prevede il ritorno. Un eterno presente dove tutto resta, come nei suoi film.
Il tempo sembra essere una delle sue ossessioni.
«Il tempo che passa è qualcosa che mi fa veramente impressione. La malinconia e la nostalgia del passato per me è una delle sensazioni più forti».
Guardando le vecchie foto che pensa?
«Che siamo tutti un po’ invecchiati». Siamo a casa sua, un secondo piano di una palazzina su viale Ostiense. «Prima di ristrutturarla – dice – era da Gina Lollobrigida. Ora è da cugina della Lollobrigida». Soffitti intarsiati, pareti colorate, divani di velluto, una Madonna, un Buddha. Una casa che piace molto ai bambini, ammette. Nipoti, figli di amici.
Le mancano i figli?
«Ho scelto di non averli, da vigliacco credo. Però sono zio, uno zio simpatico. A Natale porto i miei nipoti in un grande negozio di giocattoli e dico: “Prendete quello che volete.” Va bene, li vizio. Una mia amica si è molto arrabbiata perché la figlia – per me nipote – è tornata con una bambola a grandezza naturale che faceva cacca e pipì. Me l’ha rimandata indietro».
Eppure nei suoi film uno dei temi costanti è il rapporto genitori-figli.
«Il mio è più il punto di vista di figlio. Sono ancora figlio. Mia madre, 89 anni, continua a dirmi che devo diventare padre, non si rassegna. “Quando sei stato con quella – mi dice riferendosi a una mia fidanzata – lei era inutile, ma andava bene per fare figli, perché non l’hai fatti?».
Che comporta essere ancora figlio?
«Significa tornare con la testa sempre lì. Anni fa mi hanno dato la laurea ad honorem, ho pianto perché pensavo a mio padre, a come sarebbe stato felice, lui che ha sempre desiderato che mi laureassi, altro che cinema! E mi succede di continuo. Quando faccio un film, mi chiedo: piacerà a mamma? Anche per loro noi rimaniamo bambini fino alla fine. Se pensa che mio padre prima di morire mi ha detto “non tornare tardi, Ferzan”».
Cos’è stata per lei l’infanzia?
«Invecchiamo con una luce d’infanzia dice la Ortese. La mia è un’infanzia prolungata che ancora dura. Insieme a un certo modo di sentire. Da bambino rientravo a casa al calar del sole dopo aver giocato per strada, e sentivo le voci dei bambini delle case vicine: “è tornato papà”. Mio padre non tornava. Sparito all’improvviso e ricomparso dopo dieci anni. Ecco quel sentimento mi è rimasto, di differenza, di mancanza. Torno sempre a quel bambino che si porta sulle spalle le assenze».
Ha poi perdonato suo padre?
«L’ho capito. Perdonare è un’altra cosa».
È stato un bambino felice?
«Oddio, non mi faccia questa domanda. Sì, mi pare di sì».
Un ricordo?
«Spesso mi nascondevo aspettando che qualcuno mi cercasse. Non mi cercava nessuno. Però la mia era una casa piena di gente, facilmente si poteva sparire senza che gli altri se ne accorgessero».
Ha paura della solitudine?
«Ho paura di perdere le persone che amo. L’ultima volta a Istanbul ho passato ogni giorno con una cara amica malata. Andavo a trovarla, le facevo la spesa. Prima di ripartire dico alla sorella: “alla fine la cosa più importante è la salute”, mi viene da dire questa stronzata. E lei: “no, è avere le persone. Sapere che quando saremo vecchi ci sarà qualcuno che ci pulisce la bava e a cui noi puliremo la sua”. Aveva ragione lei».
Il suo film racconta anche di questo, del sentimento – amicizia, amore – che resiste alla malattia.
«Il film è prima di tutto una grande storia d’amore. La nascita di una passione e il suo perdurare nonostante il tempo e gli accadimenti. L’amore sopporta la trasformazione fisica».
O non la vede?
«Credo che la persona rimanga sempre quella del primo incontro. Vale la bellezza dell’inizio».
E infatti i due protagonisti, Kasia Smutniak (straordinaria) e Francesco Arca (sorprendente) nella scena più bella e poetica del film si vedono come all’inizio.
Scuote la testa. «La mia scena preferita è un’altra, quella del minestrone. Lì c’è la famiglia, ci sono i ruoli».
Come ha scelto Francesco Arca?
«Ha fatto molti provini. È stato il migliore ».
Sapeva che era un tronista? «Purtroppo no. L’avessi visto prima in televisione, gli avrei fatto fare altri otto film. È straordinario. Attento. Intelligente. Impara velocemente».
Nel film lei è stato impietoso con lui, i tredici anni glieli fa scontare tutti. «L’ho fatto ingrassare tredici chili. L’ho trasformato in un quarantenne stempiato e sovrappeso. Il tempo passa anche per i belli, rassegnatevi».
Il tempo diventa personaggio anche nel suo adattamento della Traviata.
«Anche qui amore e morte vanno in parallelo. La prima cosa che viene in mente per esorcizzare la morte è la sessualità, ogni orgasmo è un po’ come morire».
Si può tornare dalla morte? Sembra un’altra sua ossessione presente in ogni film.
«La morte non è la fine delle cose, ripeto sempre. Ma mica sono così sicuro: il dubbio rimane».
E dunque non è detto che il cane del sogno torni?
«Ho scelto di fare il regista anche per questo: lo faccio tornare io».