Riccardo Staglianò, Il Venerdì 21/3/2014, 21 marzo 2014
L’UOMO A CUI ESPLOSE IL CERVELLO
New York. Alla vigilia del grosso grasso matrimonio del fratello, un venticinquenne indo-americano in carriera smaltisce l’eccitazione del momento nel bagno di una camera d’albergo di Washington. È solitariamente intento, per dirla con Woody Allen, a fare «sesso con qualcuno che amo». Sul più bello sente come uno schianto dentro la testa. Tutto diventa buio, si affloscia sulla moquette come un burattino a cui hanno tagliato i fili. «O mio Dio, pensai, sono fottutamente cieco. Ecco che cos’era quel botto. Le cose che ci dicevano sui rischi della masturbazione erano vere» scrive Ashok Rajamani in The day my brain exploded, il giorno in cui il mio cervello è esploso, tragicomico memoir sulla sua morte e risurrezione.
Ashok 1.0, il talento delle pubbliche relazioni che ha appena ottenuto un nuovo posto lautamente retribuito, finisce il 17 marzo 2000. Sul workaholic da quattordici ore e una bottiglia di Absolut o Smirnoff al giorno cala un sipario di tenebre. Quel groviglio di vasi sanguigni che non sapeva neanche di avere in testa, una condizione rara (l’1 per cento della popolazione), congenita e asintomatica che i medici definiranno malformazione arterovenosa (Avm), si è rotto, inondando di sangue i tessuti circostanti. Miracolosamente riesce a chiedere aiuto ai genitori nella stanza accanto. Il quadro che il neurologo si trova davanti è critico. Un fiume di fluido cerebrospinale esondato è andato a finire negli organi interni. Il cervello, la zona più protetta del corpo, diventata di colpo contaminatissima. Dopo l’emorragia gli viene una meningite, che da sola potrebbe ucciderlo. Il tour della sfiga non è ancora finito. Rilevano anche un Campylobacter, un batterio ormai quasi inesistente nel mondo sviluppato, che generalmente viene trasmesso dal pollame andato a male («Raccontai di aver mangiato del pollo all’aglio non tanto buono in un ristorante cinese. E i medici mi dissero che poteva averci a che fare»). L’unica misura radicale per aggiustare quel disastro è operare. Vari rischi sanitari: cecità, sordità, paralisi delle gambe o quadriplegia. E un rischio economico: Rajamani non aveva ancora firmato l’assicurazione medica del nuovo lavoro e l’intervento costava alcuni milioni di dollari che non aveva. L’operazione va bene, nei termini relativi che tra poco vedremo, e suo fratello avvocato convince il nuovo datore di lavoro a coprire le spese.
La ricostruzione di Ashok 2.0 non è un lavoro da niente. Tra le cose che mancano all’appello del sopravvissuto Rajamani c’è metà vista. Si chiama emianopsia, ed è appunto la perdita di metà del campo visivo. Non è facile neppure da immaginare, tant’è che, pur avendolo letto, quando incontro Ashok nel suo studentesco bilocale di Chelsea mi siedo davanti a lui, e mi chiede di spostarmi di lato, all’estrema sinistra, perché solo da questa prospettiva obliqua potrà vedermi quasi per intero. Nella vita quotidiana significa sbattere contro i muri, i pali, gli oggetti. È solo l’inizio. Le terminazioni danneggiate dei nervi degli orecchi gli provocano un acufene permanente. Non pensate al sibilo occasionale che sperimentiamo dopo un concerto fracassone. «È come sentire le sirene dell’ambulanza tra un orecchio e l’altro» dice. Da impazzire. «Col tempo e una gran disciplina impari a non pensarci. Non sparisce, ma si attenua».
I primi tempi dall’apertura della calotta cranica, richiusa con quattro placche di titanio, portava i capelli corti che mostravano uno squarcio orrendo. Ora li ha lunghi e non si vede più. Ma anche per il resto, se non sapeste cosa ha avuto, non vi accorgereste di nulla. Quello davanti a me è un trentanovenne con una sofisticata proprietà linguistica e un gran senso dell’umorismo che si rammarica solo perché la sua memoria non è più quella di una volta e per questo si è dimenticato di prendere la sua dose giornaliera di pillole. Sono farmaci antiepilessia, l’altra pesante eredità di questa vicenda. Constata: «La cicatrice lasciata dalla rimozione dell’Avm è un fattore irritante per il cervello. Che ogni tanto reagisce con una crisi». Gli è successo al lavoro, per strada e, l’ultima volta, due anni fa, durante un colloquio per un nuovo posto, che non ha mai ottenuto. Dice: «La cosa più inquietante è l’aura, una serie di sensazioni olfattive, un puzzo come di avanzi andati a male, che precedono gli attacchi. E che ho imparato a riconoscere». Nella sua lunga convalescenza ha avuto anche una fase non breve di emicranie: «Mi dicevano di annotarle, attribuendo loro una scala di intensità da 1 a 10. Neanche a dirlo, erano tutti 10». E un periodo intenso di allucinazioni: «Non vedevo il mio naso allo specchio. I miei denti diventavano così grandi da coprire il resto del viso. Oppure il mio corpo sembrava più piccolo del mio pollice».
Questi sono alcuni dei danni collaterali quando la tua materia grigia è diventata un campo di battaglia. Non gli unici. La conseguenza più strana, più difficile da spiegare anche per lui che con le parole e l’introspezione ha familiarità, è la perdita della memoria emotiva: «Ricordo i dati, ma non le sensazioni. Quando sono tornato nel mio liceo sapevo di esserci stato ma è come se stessi sfogliando un catalogo perché non riuscivo a rievocare se in quelle stanze ero stato felice, triste e per quale motivo». Perché ciò accada, perché ai fatti venga strappata la pelle delle sensazioni, non si comprende bene e ha forse a che vedere con la definizione stessa di anima, di quella coscienza del pensiero che Kant chiamava appercezione. Ciò che invece non è difficile capire è che perdita immane sia questa amputazione del sé. Rajamani lo dice benissimo: «Ci vuole una combinazione paradossale di resistenza e accettazione. Serve brandire una spada, non arrendersi davanti alle gigantesche frustrazioni di quando devi reimparare a camminare, parlare, pensare. È innaturale ridiventare bambino con un corpo di venticinquenne. Ma serve anche il flauto della resa, per capire che certe cose non torneranno più e non è il caso di farne una tragedia, soprattutto quando scopri che gli altri superstiti a incidenti come il mio sono rimasti quasi tutti in condizioni molto, molto peggiori».
Forse la spiritualità indiana aiuta. Scherza: «Alla fine ho avuto due vite al prezzo di una». Il trauma ha scremato gli amici («Ne ho 2-3 che vedo spesso») e l’ha reso più sensibile ai problemi altrui («Il pr è un lavoro superficiale e cinico, che non rimpiango di aver perso. Dare speranza, con la mia storia, a vittime di danni cerebrali importanti dà tutta un’altra soddisfazione»). Resta il sempre fastidioso problemino di come campare. «Avevo dei risparmi dalla mia vita precedente. Ho fatto vari lavoretti, alla Croce Rossa e come insegnante di inglese. I miei mi hanno aiutato. Il libro è uscito all’inizio dell’anno scorso e sono stato molto impegnato con il book tour. Ora sto lavorando al secondo, ancora autobiografico ma assai più allegro, su crescere da indiano negli Stati Uniti». Per lui è stato quell’apprendistato di discriminazioni, da secchione dal nome impronunciabile per gli standard fonetici dell’Illinois della sua infanzia, per di più dalla sessualità ondivaga («queer è il termine giusto»), ad averlo reso capace di affrontare ora questa prova. L’evoluzione gli sembra evidente: «All’inizio era la rabbia a prevalere. Ero capace di prendermela per niente, litigare soprattutto con quelli che mi stavano vicino, tipo mio fratello. Poi mi dimenticavo tutto, non perché sia saggio ma solo perché la mia memoria a breve termine faceva cilecca. Come se non fosse mai accaduto. Ora mi sembra che questa perdita, come tutte quelle che si vivono con consapevolezza, mi abbia costretto a guardarmi meglio dentro e a tirar fuori risorse che avevo trascurato. Nonostante la minaccia dell’epilessia e di altre funzioni dimezzate mi sembra di vivere ora una vita più vera, più in pace con me stesso».
Ci sono maniere meno devastanti per conoscersi. Lui dice che era il suo karma: perdere un pezzo per trovare il tutto. Da mandare a memoria quando ci si imbestialisce per un treno ritardatario, un raffreddore persistente o altre pinzillacchere.