Salvatore Tropea, Il Venerdì 21/3/2014, 21 marzo 2014
LA SIGNORA IN ROSSO
Roma. Chi l’avrebbe mai detto. Era partita sotto le bandiere socialiste quando i comunisti c’erano ancora. E ora rischia di assomigliare ai comunisti che non ci sono più. O sono solo un ricordo che vive nell’ossessione di Silvio Berlusconi e dei suoi epigoni. Perché, se non fosse così, allora vorrebbe dire che Susanna Camusso è prigioniera del destino riservato ai segretari della Cgil, un ruolo che ha avuto per protagonisti Peppino Di Vittorio e poi Luciano Lama, Sergio Cofferati e persino Guglielmo Epifani che, come lei, veniva dalle file del Psi. Con una differenza: il dissenso che una volta opponeva, tanto o poco, i capi del più grande e più antico sindacato italiano ai leader della sinistra, si manteneva quasi sempre ad altissimo livello. Oggi, invece, ha l’imprinting della litigiosità diffusa. Che finisce per attribuire alla Signora di corso d’Italia la parte di chi prende ormai solo decisioni antistoriche.
Ma è proprio così? Forse, benché neppure il più attento osservatore possa esserne certo, nel sottosopra senza fine della politica italiana i ruoli tendono a cambiare e a confondersi, e gli alleati di oggi possono diventare i nemici di domani o viceversa. E questo vale anche per Susanna Camusso, che nella lunga vigilia di un congresso che a maggio certamente vincerà, sembra essere finita in terra di nessuno, condannata a scontare colpe non tutte sue come stretta tra l’attivismo giovanilistico del fare di Matteo Renzi e la foga dissacratoria del disfare di Grillo.
Per giunta con una base stancamente riottosa che sembra rintanarsi nel seno protettivo del sindacato per naturale identità, e militare – quando milita – nelle file del Pd per necessità. Comunque, sempre dividendosi tra vecchio e nuovo come nella migliore tradizione della sinistra.
Nei corridoi dell’ultimo congresso di Torino, un sindacalista di lungo corso, di quelli che hanno visto tutto quello che c’era da vedere nel percorso parallelo di Cgil e Pci, si è lasciato scappare un giudizio che fotografa impietosamente e amaramente la posizione della prima donna approdata al posto di numero uno della Cgil: «Non si capisce se è l’ultimo dei mohicani o il soldato giapponese del Pacifico al quale nessuno ha ancora detto che la guerra è finita, la vittima di un cambiamento mal governato e sfuggito di mano o l’artefice di un’opposizione che muove da premesse vecchie per cercare il nuovo». È possibile che Susanna Camusso, che il sindacalista torinese una volta avrebbe chiamato compagna mentre adesso sta attento a non chiamare signora, sia un po’ tutte queste cose.
Quello che è certo è che dispone di una robusta considerazione di sé, ma non è escluso che sia solo una corazza per difendersi in un mondo da sempre maschilista come quelli del sindacato e del partito. Il suo non è un atteggiamento altezzoso, ma può infastidire e su questo insistono i detrattori, dentro e fuori il sindacato, lasciando intendere che si tratti di qualcosa che ha a che fare con la gelosia che, come si sa, è donna quando i protagonisti sono donne, diventa ambizione se sono uomini. Ma la cosa più curiosa è che questa ossessione si chiama Fiom, un sindacato che lei ha guidato in una posizione minoritaria di socialista ai tempi dell’Alfa Romeo di Arese. Quando oltre ad essere una giovane dirigente dei metalmeccanici era anche la ex studentessa di archeologia ammirata e corteggiata.
La voce arrochita dalle troppe sigarette, l’azzurro degli occhi che ancora conserva la bellezza trasmessa da alcune sue fotografie in circolazione, fisicamente un po’ appesantita dai cinquantasette anni (due terzi dei quali passati in estenuanti e fumose assemblee), due matrimoni da lei tenuti garbatamente al riparo delle cronache (così come la figlia Alice), una collaudata attenzione per i problemi legati ai diritti delle donne nel cui campo continua a conservare un ruolo attivo, la segretaria della Cgil è rimasta prigioniera della paura di due categorie come Fiom e Funzione pubblica e, dopo averle assecondate, ora gli va contro frontalmente. «Perché è gelosa di Maurizio Landini» dicono in tanti. Mentre c’è chi si domanda che altro potrebbe fare un segretario della Cgil che un giorno apre la Repubblica e si trova a leggere una lunga lettera del segretario della Fiom al premier Renzi.
Un’idiosincrasia recente? Nient’affatto, roba vecchia. Era già successo qualcosa quando seppe che Landini aveva incontrato a sua insaputa l’allora ministro Fornero; e poi quando, a una riunione sindacale in Toscana, sempre Landini si era fatto aspettare perché aveva tirato lungo in un colloquio con Renzi. Che allora stava solo studiando da Presidente del consiglio, figuriamoci ora. Si capisce perché abbia sprezzantemente definito la squadra di Renzi «un governo come quelli che l’hanno preceduto». Per dire che è un esecutivo senza «alcun rispetto per la mediazione sindacale». Se poi il capo di questo governo sceglie come interlocutore privilegiato la bestia nera dei suoi predecessori – il Landini «che parla come il segretario della Cgil» – allora diventare antigovernativi non è più un rischio, ma una realtà. Anche se qualcuno prova a riesumare l’antica tentazione massimalista di quanti provengono dalle file socialiste.
Lo avrebbe potuto fare, e non lo ha fatto, chi pure apparteneva a quella famiglia come Epifani che ha sponsorizzato la successione, consentendo alla Camusso di essere eletta al suo posto nel novembre del 2011 con quasi l’80 per cento dei voti.
Se invece è lei a mettersi di traverso, al di là dell’aspetto caratteriale, la scelta diventa difficile da sostenere nel 2014. E se lei ci prova, come realmente fa, si complica la vita, dando fiato a quanti la bollano come «la regina di corso d’Italia» alludendo al suo comportamento e alle sue scelte che sembrano contraddire il percorso di un sindacato che, da un pezzo, non è più «cinghia di trasmissione del partito» e pretende semmai il contrario. Camusso si mette su una strada in salita perché deve fare i conti con una Cgil che, per la prima volta, è costretta a essere meno spregiudicata del partito al quale storicamente è vicina, come se fosse rimasta impigliata nelle maglie del Novecento.
Qualcuno arriva a ipotizzare che in un altro momento una donna come Susanna Camusso sarebbe stata un altro segretario della Cgil. Ma se su sei milioni di iscritti a questo sindacato una buona metà è fatta di pensionati e dell’altra metà un pezzo importante si chiama Fiom, c’è proprio poco da fare. Il destino ineluttabile si ripropone e spinge alla difesa di un modello di sindacato sopravvissuto al Secolo breve. Con un segretario come Susanna Camusso che si adatta, per amore o per forza, ricordando maghi e indovini che nella quarta bolgia dell’ottavo cerchio dell’Inferno dantesco sono condannati a camminare guardando indietro. Per il fatto di essersi trovata al posto giusto nel momento sbagliato.