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 2014  marzo 20 Giovedì calendario

CATENA DI SMONTAGGIO


È molto più furbo di quel che appare dicono i suoi tanti nemici dentro il sindacato. Autodidatta, studi da geometra precocemente interrotti, ex saldatore all’età di 15 anni, Maurizio Landini, capo della Fiom, si prepara a scalare la Cgil e dunque osserva con sguardo rapace il trono di Susanna Camusso, la sua grande avversaria, e punta alla segreteria generale del sindacato un tempo rosso.
Si vota tra meno di 2 anni, e la strada è lunga, complicata, i tempi sempre più infidi, le gerarchie sempre più instabili, non di rado le porte si rivelano finte, o danno su uno sgabuzzino polveroso, su una fogna, sul vuoto: il potere non è più lì, forse non è mai stato lì. Dunque servono alleati, e di quelli vincenti. E così, alterno compare di Michele Santoro e di Matteo Renzi, questo cinquantaduenne di San Polo d’Enza, provincia di Reggio Emilia, ha da tempo abbandonato il declinante Nichi Vendola, che pure gli è stato amico. E, annusato il vento politico, adesso costeggia cauto i sentieri tortuosi e vittoriosi del nuovismo renziano e della furia grillina.
Così Landini è ospite frequente delle trasmissioni di Santoro; è la faccia larga rassicura i «disperati speranzosi», i giovani radicali in cerca di riti epocali. Ma è anche il sindacalista improvvisamente moderno che accentua nei confronti di Renzi carnali e ondulanti lusinghe: incontra il giovane presidente del Consiglio, gli sorride, pacche sulle spalle, «Bisogna fidarsi di Renzi» dice. Ed è la vecchissima Italia che fa il nido nel tronco nuovo della sinistra, o di ciò che rimane della sinistra.
Raffaele Bonanni (Cisl), Luigi Angeletti (Uil) e la signora Camusso hanno perso l’appeal d’un tempo, e come la vecchia guardia del Partito democratico, come Massimo D’Alema e come Anna Finocchiaro, come Rosy Bindi e come Beppe Fioroni, sono anche loro invecchiati d’un tratto: sono diventati puro apparato, oggetto di rottamazione. Landini, invece, con la sua immagine ben studiata, non ha la scorta né l’auto blu, e parla in un tono semplice e disinvolto, senza mai scivolare nell’enfasi di una perorazione sindacale. Davanti ai cancelli delle fabbriche indossa dozzinali felpe rosse con la scritta Fiom; e nei salotti della televisione, che se lo contendono, ha capelli spettinati, la maglietta della salute che spunta da sotto il colletto della camicia.
Nella voce di questo sindacalista anomalo, che si fa vanto di non aver mai letto Karl Marx, c’è sempre una sfumatura aggressiva e affettuosa insieme, non priva di fascino, come ha subito capito quella vecchia volpe di Santoro. Ed è per questo che Landini, che da Fabio Fazio ha detto che «i soldi bisogna prenderli ai ricchi, alle transazioni finanziarie e ai capitali scudati», ha capito come si fa a piacere ai grillini, ma anche a Renzi.

E poco importa che in realtà, come gli altri vecchi uomini d’apparato, come Camusso, come Bonanni, come Angeletti, anche lui a 25 anni abbia abbandonato la fabbrica per fare il sindacalista a tempo pieno. Si finge straniero, con successo. E perpetua così il peccato originale di una bugia consapevolmente ripetuta fino alla nausea, il far politica e sindacalismo esibendo il vezzo di non farli: «Sono solo un cittadino e un lavoratore».
Figlio di un cantoniere che fu partigiano comunista e di una madre casalinga, allievo dei più duri che il sindacato italiano abbia mai conosciuto, cioè Gianni Rinaldini e Claudio Sabattini, Maurizio Landini ha una storia di astuzie contrastanti. Un po’ flirta con il mondo di Beppe Grillo e di Santoro, un po’ con quello di Renzi, malgrado i primi siano tutto il contrario della cultura istituzionale della tradizione comunista e malgrado Renzi sia l’amico del suo nemico teorico Sergio Marchionne. Non importa. Entrambi questi mondi possono essergli utili.
Ma è troppo presto per scegliere davvero, e comunque non è mai opportuno schierarsi fino in fondo. Così un po’ li critica e un po’ ne accarezza il pelo per il verso giusto; un po’ si avvicina e un po’ si allontana con monotona, indifferente pendolarità. E dunque di Renzi dice (a Repubblica): «È una novità che va presa sul serio». Ma poi aggiunge, strizzando l’occhio anche a Grillo: «Questo significa che va criticato e, se necessario, attaccato».
Nei suoi rapporti con Renzi e con Grillo c’è dunque qualcosa di nemico e ancora di complice, negli occhi, nei gesti, che li rivelano avversari eppure alleati in un medesimo codice, legati a identici segreti di trucco, a paralleli sortilegi di civetteria politica. Landini sa che solo i sindacati hanno ancora tessere, risorse e organizzazione, e rappresentano interessi e culture, ragionamenti e utopie: il sindacato è l’unica realtà stravecchia ma chiara d’Italia. Landini si offre dunque a qualunque movimento si illuda d’essere il nuovo slancio vitale, la risata che potrebbe fare ripartire il gioco fermo d’Italia.
E che sia Renzi o che sia Grillo a lui non importa: per lui sono tutti uomini ponte sui quali si passa e si va oltre. Verso una meta che si chiama segreteria della Cgil.