Flavia Piccinni, Gioia 20/3/2014, 20 marzo 2014
INVITO A CENA SENZA DELITTO
[Gianrico e Francesco Carofiglio]
Questa è una storia di meridione, sapori, ricordi di famiglia e macchine da scrivere. È la storia di una casa nel bosco, di quegli odori che messi in fila fanno tutta una vita, di quei piatti che ti riportano indietro nel tempo, a quando eri bambino e le avventure erano rubare caramelle o intrufolarsi in case di misteriosi vicini. Ma è anche una storia di cuori spezzati. Anzi, di un cuore spezzato.
Tutto comincia un giorno di autunno di quasi vent’anni fa, quando Francesco Carofiglio – scrittore, architetto, disegnatore e regista, nonché fratello del più conosciuto Gianrico – entra nel suo appartamento e non trova più niente. «Non erano stati i ladri, ma la mia ex fidanzata», spiega, sprofondando in un divano amaranto. Siamo nel suo appartamento un groviglio di poltrone, oggetti, libri, quadri disegnati da lui stesso, fotografie e curiose istallazioni artistiche ai confini del quartiere popolare Libertà, poche centinaia di metti dal mare e dal centro di Bari. «Ci eravamo mollati e le avevo detto: porta via tutto quello che vuoi. Lei mi aveva preso in parola, e non aveva lasciato niente. Ricordo che la prima notte mi arrangiai con un materasso di fortuna, una lampadina infilata in una presa e il cappotto come coperta. Non ho mai sofferto tanto il freddo. Eppure proprio quella notte capii che le cose non servono a niente altro se non a essere cose. E che dovevo raccontare la mia storia».
Nacquero così le prime trenta pagine di With or without you, romanzo dal forte tono autobiografico che raccontava di un aspirante attore diviso fra la Puglia e Roma. Dopo quattro anni, il romanzo fu pubblicato da Rizzoli («rimase tre anni fermo da un editore, ma non dico quale»), divenne un discreto successo, ma soprattutto segnò per sempre la vita del suo primo lettore, tale Gianrico Carofiglio, che all’epoca faceva il magistrato. «Avevo studiato Giurisprudenza e intrapreso una carriera che non aveva niente a che fare con il mio sogno da bambino, diventare uno scrittore. In famiglia venivo considerato riflessivo e studioso, quello creativo era Francesco! Eppure leggendo quelle trenta pagine il pensiero dell’infanzia ritornò con prepotenza, e così iniziai il mio primo romanzo», ricorda Gianrico, abbozzando un sorriso. Ha grandi occhi verdi, scandisce piano le parole, si passa le mani sulle gambe magre: ha una palestra in casa dove si allena tutti i giorni, lui ci tiene a essere sportivo («mica come la maggior parte degli scrittori»).
L’esordio è nel 2002 con il legal thriller Testimone inconsapevole cui seguono, a cadenza quasi annuale, altri dieci libri. «La prima lettrice fu mia madre, scrittrice a sua volta. Mi disse che le piacevano più le parti relative al processo e alla giurisprudenza, che quelle puramente narrative. Me ne feci una ragione. In fondo, quello estroso per lei era Francesco», ricorda ancora, alzando un poco le spalle. Ed è curioso, ma bellissimo, vedere che nonostante i successi e gli anni – Gianrico ne ha 53, Francesco 50 – quella sottile, giocosa, rivalità fra fratelli sopravvive intatta. Si nota anche nell’ultimo libro dei due, che tornano a collaborare dopo sette anni dall’uscita della graphic novel Cacciatori nelle tenebre, dove Gianrico era autore e Francesco illustratore. L’editore è sempre Rizzoli e l’occasione è, per dirla con le parole degli stessi Carofiglio, il “memoir gastronomico-sentimentale” La casa nel bosco.
«Mi avevano chiesto di fare un libro dalle atmosfere culinarie, e subito mi è venuta l’idea di coinvolgere mio fratello. Doveva essere un gioco, ma è stato molto più faticoso del previsto», continua Gianrico, e poi racconta delle litigate, degli incontri settimanali, dei ricordi delle estati passate nella foresta Mercadante, di come a volte sia difficile aprirsi con il proprio fratello, di come tutto «sia vero ma romanzato». Anche gli odori e i sapori? «No, quelli no. Ci abbiamo messo la nostra infanzia e adolescenza senza filtri. A partire dal polpettone in umido di nonna Italia, sicilianissima, che lo serviva con un’emulsione di limone e olio, e negli anni ha preso il sapore dei piatti che hai mangiato poche volte nella vita, e che non assaggerai più. O come la pasta al forno di nonna Maria, che tante volte abbiamo consumato e che cuciniamo anche noi», riprende Francesco, a sottolineare che la fratellanza è anche, e soprattutto, nei ricordi e nei cibi che sanno come “riportare indietro”. Indietro a una complicata ratatouille olfattiva nella quale, da lettori, è difficile non trovare un dettaglio in cui riconoscersi – l’odore del gelsomino, il sapore delle caramelle di zucchero, i suoni del bosco e le aspettative per le vacanze estive – e nella quale a tratti, in controluce, compare Enza Buono, la madre scrittrice che stava per ore a ticchettare sulla sua Lettera 22.
Ma, come dicevamo prima, questa è anche una storia di sapori. Così i due mi trascinano di là, in cucina, per farmi provare la ricetta dello zio Franco. Iniziano ad armeggiare fra pentole e padelle, assaggiano, commentano, discutono. Assomigliano un po’ a due bambini pasticcioni. All’improvviso, però, tutto sembra aver trovato un ordine e inspiegabilmente mi viene allungato un piatto di spaghetti bruciacchiati. Provo a dire che no, non ho fame, ma i due insistono. Alla fine assaggio e sì, sarà un miracolo, ma quello che hanno preparato è davvero un piatto di pasta buonissimo.