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 2014  marzo 20 Giovedì calendario

CHIARA CLEMENTE – AFFARI DI FAMIGLIA


Tra un disegno di Keith Haring inciso con noncuranza sul retro della porta d’ingresso, un frammento poetico di Ezra Pound che corre fastoso da un angolo all’altro del soggiorno, un quadro di Niki de Saint Phalle con zebre e leoni (The zoo with you), c’è nello studio il nome “Alba” scritto da cima a fondo decine di volte in colori pastello, dal celestino all’arancio spento, dal rosa polvere al giallo tenue, sempre accompagnato da cuori, piccole onde, soli e lune: un’intera parete sentimentale disegnata da Francesco Clemente, allora ventenne, per il fiammeggiante amore della sua vita. «Quando mio padre l’ha fatto, aveva appena conosciuto mia madre Alba», dice la figlia Chiara, e allarga lo sguardo trasparente, scosta il manto dei capelli che la maternità imminente ha reso lucente come seta spessa. «Prima di vederla, lui si era innamorato della sua risata, sentita per strada. E seguendone la traccia, era arrivato alla proprietaria, una bellissima ragazza bruna seduta al tavolino di un caffè». Non si fatica a immaginare la scena. Una versione amorosa e a lieto fine del pifferaio magico, così adatta a fare da incipit al favoloso mondo dei Clemente: con questa casa giovanile di Roma, dove Chiara è nata, che contiene tutta l’orma elegantemente distratta, come se la bellezza fosse un risultato ovvio ma casuale, ottenuto senza sforzo. Perché le poltrone possono essere sfilacciate, e però pini mediterranei e profili di chiese barocche sembrano adagiati di proposito contro il cielo, oltre la finestra. Lui napoletano, lanciato dalla Transavanguardia a fine Anni 70, trasferito a New York più di 30 anni fa, è un nome acclamato della scena internazionale. Lei amalfitana, sofisticata faccia da scugnizza, è stata attrice nel teatro sperimentale, e musa indiscussa del marito: effigiata da sola o a lui intrecciata in certi viluppi inscindibili. «L’ho visto in altre coppie di lunga durata cementate dall’arte, per esempio Ada e Alex Katz protagonisti di un mio documentario: è come se solo tornando all’altro si possa esprimere davvero qualcosa, un punto per ripartire nella verità su se stessi di cui si va in cerca».
La verità su se stessa Chiara ha capito dove cercarla a 12 anni, quando ha chiesto per Natale una videocamera e con quella ha cominciato a filmare tutto ciò che poteva. «Il primo risultato, alla fine del liceo: un confronto tra maschi amalfitani e newyorkesi. E non era per nulla imparziale: i ragazzi di qui, bruni nel sole, vincevano a mani basse». E dopo quattro anni all’Art Center di Pasadena e altrettanti a Roma dove ha cominciato a lavorare per la Rai, ha realizzato Our City Dreams, la prima opera molto premiata: «Cinque capitoli su cinque artiste, da Marina Abramović a Nancy Spero, per raccontare diverse stagioni della vita sullo sfondo di New York». Nel frattempo c’è stata la collaborazione con Apple, Baccarat, Levi’s. E, ora, la moda: bellissime T-shirt e foulard per Carte Bianche di Sportmax, la capsule collection ispirata all’arte e giunta alla quinta edizione. «Avendo due fratelli e una sorella mi hanno sempre appassionato le mutazioni della memoria: lo stesso episodio familiare trasformato in ricordi differenti o che sembrano tuoi solo perché qualcun altro te li ha raccontati. Oggi con Internet è tutto così condiviso che il ricordo sembra congelato, fisso, senza dubbi. Volevo indagare su quest’apparenza: le mie foto sono mosse come se fossero in movimento, alludono all’incertezza di un vissuto che forse è diverso».
Due delle immagini riprodotte su stoffa e seta sono state scattate sulla costiera amalfitana, «la mia seconda casa, da cinque generazioni appartiene ai Primicerio, la famiglia di mia madre. Mare, giardino di limoni e 189 scalini: ci arrivi solo a piedi, o con il ciuccio, e ora che ci penso, con la carrozzina sarà un macello! È il posto dove ci sono più ricordi di me nel tempo, tre mesi d’estate con nonno Ferdinando e nonna Teresa tutti gli anni dacché ero bambina. È anche la casa dove è stato concepito mio figlio, o figlia...». Non volete sapere il sesso? «No, c’è una doppia lista di nomi, maschili e femminili, capiremo quello giusto quando vedremo la faccia, a inizio aprile. Il nome è una gigantesca responsabilità, ti segna nel mondo. I fratelli di mia madre si chiamano Maria Antonietta e Peppino. Alba che c’entra? Un nome arrivato non si sa da dove nella sua famiglia tradizionalissima. E lei gli ha sempre corrisposto, spostando fin da ragazzina il proprio limite. Capelli corti un dito, minigonne, super trucco. Molto ribelle, più di me che con due genitori scatenati non ho mai vissuto il mio periodo da matta. Anzi, per dimostrare quanto fossi responsabile e un po’ capatosta, come diceva mio nonno: già a tre anni mamma mi mandava da sola a comprare il panino con la mortadella, qui a Roma, nel negozio all’angolo». Sotto il sole di Amalfi, a luglio, Chiara sposerà Tyler Thompson, che cinque anni fa ha abbandonato il lavoro per dedicarsi alla narrativa: «Ha finito il primo romanzo, scrive tutto a mano, artigianalmente, solo dopo passa al computer». È importante che sia un artista: «Capiamo che cosa significa creare. Quando entra nel tunnel finale e scrive di notte, io sparisco e lo accetto. Lui comprende le mie assenze, i viaggi, i momenti di dubbio quando non riesco a trovare la mia voce, l’unica cosa che mi rende forte. Insieme siamo chi siamo: non abbiamo mai cercato di cambiare per corrispondere all’idea dell’altro. Non c’è uno che tira e uno che si lascia trascinare. Io gli do un po’ del mio bianco, lui un po’ del suo nero». Naturalmente, sarebbe importante stare insieme per sempre. «Tyler è di San Francisco, la sua famiglia è opposta alla mia che vede genitori innamorati da 40 anni: sono tutti divorziati e super amici. A Natale, tra fidanzati attuali ed ex, figli vecchi e nuovi, eravamo in 60. Wow, bellissimo, gli ho detto: Però, mi piacerebbe se tra noi durasse per sempre. Oggi è così facile lasciarsi».
Durare in amore, esprimersi attraverso l’arte, coltivare l’amicizia, sempre diluendo una cosa nell’altra, come se la vita non possa che essere questo garbuglio denso di passioni intrecciate: si capisce che per Chiara l’idea di come si sta al mondo è in un certo senso obbligata. «Fino a quando avevo dieci anni, prima che nascessero i due gemelli maschi, siamo vissuti a New York nello studio di papà. Magari davanti a una tela mia sorella piccola con una ditata aggiungeva uno sbaffo di colore, io girando intorno ai suoi quadri, letteralmente, ci sono cresciuta. E tutte le sere, con i loro amici Allen Ginsberg, Basquiat, o Keith Haring che ci lasciava giocare interi pomeriggi nel suo atelier, c’eravamo sempre anche noi in cucina: non c’erano i grandi e i bambini da mandare a letto. Molto di ciò che sono viene da lì, dalle parole udite e immagazzinate, dalle loro vite stravaganti e tormentate che non seguivano il cool ma solo la propria ispirazione, da questa appassionata comunità di adulti affettuosi seduti intorno a un tavolo per assaggiare i piatti di mia madre. Allora non c’erano star, le star stavano solo a Hollywood».
La cucina italiana e la comunità americana, l’estate in costiera e la scuola a New York. E l’India che suo padre scoprì giovanissimo nei lunghi viaggi con Alighiero Boetti: «Viaggiare affrontando situazioni scomode, piegandoti alla realtà locale, è essenziale, l’esperienza migliore della vita. Avevo appena tre mesi quando i miei mi hanno portato in India. Avevamo una casa a Madras con un albero di mango, mangiavamo i frutti ancora verdi con il sale. E mi ricordo un episodio che è diventato una leggenda di famiglia: avevo dato una caramella a una scimmia che non mollava più la mia mano, e mentre mamma urlava, un cane randagio che ci seguiva sempre era intervenuto abbaiando e la scimmia era scappata via».
Anche Chiara, come succede a quelli che sono cresciuti tra mondi diversi, alla fine non sa davvero a chi appartiene: «Dico sempre che non sono americana, ma newyorkese. E l’ho capito solo dopo quattro anni a Roma. L’Italia è un sogno. Però, forse, tutto è troppo bello e buono, cibo, arte, persone calde: è come se ci fosse un deficit di carica. A New York, che è frenetica, sono molto rilassata, a Roma, che è rilassata di suo, divento frenetica. Sarà un problema mio: non ho radici se non in mille posti, a parte la mia famiglia s’intende. Ma se potessi scegliere, ecco: vorrei che fosse così anche per mio figlio».