Giusi Landi, LookOut 20/3/2014, 20 marzo 2014
I PIRATI DEL TERZO MILLENNIO
Se ne stanno rintanati nei punti di passaggio obbligato per le navi. Al di là della cintura delle lagune, nelle gole propizie agli agguati, dietro petrose barriere. I nuovi predoni del mare si addensano lungo gli stretti di Bab El Mandeb, Hormuz, Malacca o nelle acque prospicienti le coste di Benin o del Puntland, dove i moderni filibustieri si preparano a rastrellare come niente imbarcazioni ed equipaggi. A bordo di barchini, rapidi come gli jinn, i banditi somali, armati di kalashnikov e granate, abbordano petroliere, navi commerciali, o semplicemente da diporto.
La pirateria del terzo millennio è una criminalità dalle tecniche agguerrite. Da impresa di artigianato criminale a strapotente holding privata. La bête noire allunga mille tentacoli, si appropria dei proventi degli arrembaggi, e accumula colossali profitti. Mira al midollo economico e commerciale del mondo. Gli reggono la coda negoziatori, intermediari, attori non statali, finanziatori – propensi a pianificare strategie – e sponsor – disponibili a rimediare barche veloci, carburante, armi, sistemi di comunicazione e altro.
La più antica forma di criminalità organizzata incarna la prima forma imprenditoriale di ateismo operativo: là dove “Dio non vede”, tutto è possibile. Questo scenario è puntellato da Stati instabili, istituzioni pericolanti, politiche criminofile, disordine economico e malessere sociale. In simili contesti, occorrono regole giuridiche chiare e macchine giudiziarie efficienti. Peccato che il lessico giuridico, al riguardo, suoni approssimativo e lacunoso. L’art. 105 della Convenzione di Montego Bay stabilisce che ogni Stato, in alto mare, può sequestrare navi o aeromobili, catturati con atti di pirateria e tenuti sotto il controllo dei pirati, e arrestare coloro che si trovano a bordo requisendone i beni. Gli organi giurisdizionali dello Stato che ha disposto il sequestro hanno facoltà di giudicare gli autori dei crimini di pirateria fermati nelle acque internazionali presso i propri tribunali nazionali e di infliggere loro una pena.
Ma per diventare regola positiva, la norma internazionale ha bisogno di essere incardinata nei vari ordinamenti statuali. Il travaso postula però atti legislativi interni che ratifichino i protocolli, rendendoli esecutivi. Solo così è possibile produrre, all’interno di ciascun Stato ratificante, le sottostanti norme punitive e istituire un sistema repressivo a maglie fitte. Ora il fatto è che gli Stati, de facto, non hanno mai provveduto a creare una normativa interna che introiettasse le norme di matrice internazionale.
Va poi segnalato un secondo incaglio. La trama narrativa non prevede alcun obbligo di giudicare. L’articolo 105 della Convenzione contempla invece un uso facoltativo della giurisdizione, con l’effetto che i sopraffattori passano indenni nella ragnatela legale. Catturati e poi lasciati liberi, il più delle volte non subiscono alcun processo e non patiscono alcuna pena. Dunque, la legislazione internazionale in materia di pirateria è materia vecchia, polverosa e affetta da vizi congeniti. E siccome tocca al diritto internazionale e alla legislazione nazionale cooperare per oliare i meccanismi giudiziari, ipotesi auspicabile sarebbe quella di metter mano a uno “Statement of Principles”, una specie di protocollo aggiuntivo universale, volto a integrare le attuali norme di diritto internazionale.
Insomma il mare, malgrado le numerose convenzioni internazionali, è una specie di giungla. Soppesati i diagrammi esponenziali degli attacchi e delle perdite secche, le compagnie di navigazione sillogizzano che solcare le rotte marittime, dove la malavita del mare ha diritto d’asilo, è un’impresa imprevedibile. I noleggi sono aumentati e i premi assicurativi pure (fino a dieci volte sui carichi trasportati e sulle navi mercantili). Tatticisti per necessità, gli utenti del mare vagliano tragitti alternativi, pianificano spossanti gincane per dribblare gli sgherri del mare. Piuttosto che entrare nel golfo di Aden, meglio fare il giro dell’Africa. O, mal che vada, pagare il riscatto e risparmiarsi “quarti d’ora di Rabelais”. Gli interventi di cooperazione tra Stati sono solo propositi declamati – per ora – e il diritto convenzionale è embrione ancora informe. Come si dice: mentre il medico elucubra, il paziente muore.