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 2014  marzo 20 Giovedì calendario

AMICI? XI E NO


La fondazione della Repubblica Popolare Cinese nel 1949 ad opera di Mao Zedong ha segnato la fine del “Secolo dell’umiliazione”, ovvero di quel Grande Impero del Centro umiliato da britannici e francesi con le Guerre dell’oppio e con i diktat delle grandi potenze occidentali. Un’umiliazione accentuata dal fatto che alle potenze coloniali d’Occidente si era aggiunto il Giappone, considerato tradizionalmente dai cinesi come un piccolo Paese vassallo, eppure diventato anch’esso potenza colonialista. Sarà la Cina di Mao a segnare la fine di questo “Secolo dell’umiliazione”. Con la sua morte, tutto cambia. Fino a Mao, infatti, la Cina aveva sì una grande strategia ideologica globalista (il terzomondismo), ma non una vera politica estera.
Con Deng Xiaoping, che riceverà l’eredità del Grande Timoniere, la Cina lancia per la prima volta una vera e propria politica estera, il cui tratto principale è l’assenza di ideologizzazione. Deng utilizza il pragmatismo confuciano, una politica che in termini occidentali potremmo definire neobismarckiana: attiva ma di basso profilo, cooperativa con i vicini (finanche con gli Stati Uniti) e funzionale all’obiettivo primario di creare un ambiente internazionale favorevole allo sviluppo economico nazionale.
Con l’affermarsi della Cina quale potenza globale, questa politica estera subisce alcune trasformazioni: da una parte diviene multilaterale, per cui favorisce la crescita del regionalismo asiatico, ma dall’altra assume progressivamente caratteri intransigenti, creando non poche preoccupazioni nei Paesi vicini. Questo diviene evidente nel rapporto tra Tokyo e Pechino, le cui ferite della Seconda Guerra Mondiale ancora oggi non sono rimarginate: basti pensare che il motivo ricorrente e foriero di tensioni tra le due principali potenze asiatiche è relativo a un piccolo gruppo di isolette disabitate (amministrate da Tokyo sin dall’Ottocento) che, se anche fossero ricche di petrolio e gas, non giustificherebbero la guerra che molti analisti paventano.
Se i ripetuti atti di ostilità e provocazione da entrambe le parti appaiono incomprensibili all’Occidente, essi si spiegano bene se esaminiamo la politiche dei rispettivi leader, Shinzo Abe e Xi Jinping. È evidente che nessuno dei due vuole la guerra, semplicemente perché essa non conviene. Abe e Xi sono piuttosto impegnati in un gioco strategico, fatto di bluff e contro-bluff, che va sotto il nome di “brinkmanship”. È la strategia del rischio calcolato o, se vogliamo, quella del “gioco del coniglio”, dove perde chi ha paura e dove l’obiettivo non è la guerra ma soddisfare rigurgiti nazionalistici.
Questo gratifica i giapponesi, che si sentono minacciati dalla rapida e straordinaria ascesa cinese, sia economica sia strategica. Ma gratifica anche i nazionalisti cinesi, che da sempre sognano d’impartire una lezione umiliante al Giappone. Anche perché in Cina, finito l’ideologismo, oggi è proprio sul nazionalismo che la nuova leadership punta per creare il necessario consenso. In sintesi, l’obiettivo di entrambi i leader altro non è se non gestire il rinascente nazionalismo.

La sfida USA-Cina, il “big two”.
È fin troppo evidente invece la rilevanza che a livello globale e sistemico contrappone Pechino a Washington. L’odierna politica globale prevede un G2, un “big two”, un condominio sino-americano che dal G7, passando per il G8 e il G20, si è evoluto sin qui. Oggi tra le due grandi potenze esiste un “chain-gang”, ovvero un’alleanza forzata, che li costringe a cooperare: la Cina, che produce più di quanto consuma, ha bisogno del grande mercato americano per le esportazioni. Mentre gli USA, che consumano più di quanto producono, hanno bisogno che la Cina compri buoni del Tesoro per finanziare l’ingente debito. Questa particolare relazione tra USA e Cina, cruciale per il sistema internazionale attuale, è la dimostrazione che oggi l’interdipendenza economica, e quindi la geo-economia, prevale sulla geo-politica. Il problema è: fino a quando durerà?
Molti studiosi, a cominciare dagli analisti del Dipartimento di Stato, sono preoccupati e si chiedono come la Cina gestirà l’ingente potere che sta progressivamente accumulando. Sarà un attore responsabile? La Casa Bianca è convinta che la Cina sia una potenza fondamentalmente revisionistica, come la Germania guglielmina o hitleriana o l’Italia mussoliniana, ovvero una potenza non soddisfatta del sistema internazionale esistente e che, per tale ragione, desidera modificarlo. Se fosse vera tale ipotesi, la Cina diventerebbe necessariamente lo sfidante degli Stati Uniti.
In realtà, per tutto il periodo post Guerra Fredda, gli USA hanno sempre considerato la Cina una potenza amica-nemica. Non c’è dubbio che l’ascesa straordinaria cinese sia alla base della strategia recentemente adottata da Obama: quella del “pivot-to-Asia”, che ha spostato verso il Pacifico il baricentro geostrategico degli Stati Uniti, ricalibrando e rivedendo al ribasso gli interessi (e la presenza) di Washington nel Medio Oriente, sempre meno interessante per gli USA.
In concreto, l’obiettivo di questa nuova strategia di Obama “pivot-to-Asia” è consolidare un ruolo che gli Usa hanno sempre svolto in quest’area, cioè l’offshore balancer, un bilanciatore esterno. Il problema è che una parte della leadership cinese vede in questa strategia USA una minaccia all’unico punto veramente vulnerabile della Cina dal punto di vista geostrategico: il blocco dei porti cinesi e/o delle rotte dello stretto di Malacca. Colpire Pechino qui, significherebbe la fine della Cina per strangolamento. A tale scopo, la leadership cinese ha elaborato una nuova strategia che mira per l’appunto a neutralizzare questa minaccia modernizzando le proprie forze armate, segnatamente la marina, e sviluppando una tecnologia missilistica avanzata.
In realtà, però, a una più approfondita analisi, emerge che a Pechino non conviene seguire una politica di tipo revisionistico. Del resto, oggi le rotte sono sicure e la Cina non risente di limiti geopolitici o problemi geo-economici. Anzi, a differenza dei giapponesi, che sono stati pesantemente danneggiati da questo sistema, Pechino sguazza volentieri nella globalizzazione, dalla quale ha avuto tutto ciò di cui aveva bisogno per la sua straordinaria crescita economica: capitali, tecnologia, mercati per le esportazioni e materie prime.
Perché dunque modificare la struttura del sistema internazionale? Perché ammazzare “la gallina dalle uova d’oro”? Il problema è forse allora come l’Occidente legge se stesso in confronto alla Cina: con la “transizione del potere” da Ovest a Est (effetto combinato della “ascesa” dell’Asia – prima trainata dal Giappone e poi dalla Cina – e della globalizzazione) è finita l’epoca dell’egemonia culturale occidentale, iniziata due secoli fa; ma non sembriamo averlo capito. Se l’Occidente in questo momento è incapace a comprenderlo, i cinesi invece che ci studiano a fondo sanno bene che il nostro punto debole è proprio la capacità di accettare la diversità.
Un problema, questo, che non affligge certo la Cina e che, nonostante i segnali d’arroganza di Pechino, non porta a ritenere credibile una Cina come potenza revisionistica. Se dietro l’Occidente c’è ancora una visione eurocentrica e di dominio, dietro alla Cina c’è invece Confucio: siamo tutti sulla stessa barca, facciamo parte di un unico grande Tao. Infatti, mai come oggi il Confucianesimo è così forte e sostenuto dalla leadership cinese. Si può parlare a ragione di un neo-Confucianesmo del XXI secolo.

Franco Mazzei*
* Esperto di Relazioni Internazionali, Professore emerito di Storia e Istituzioni dell’Estremo Oriente