Paolo Garimberti, la Repubblica 20/3/2014, 20 marzo 2014
IMPERO – QUELL’INTRAMONTABILE SOGNO DELLA GRANDE MADRE RUSSIA
Secondo il Levada Center, unanimamente considerato il più indipendente centro di sondaggi della Russia, oltre il 70 per cento dei russi approva la politica di Putin verso l’Ucraina e di conseguenza l’annessione della Crimea. Il 67 per cento è convinto che le forze «nazionaliste» o addirittura «fasciste» dell’Ucraina abbiano provocato la crisi e soltanto il 2 per cento è critico verso il presidente. La cerimonia imperiale durante la quale Vladimir Putin, seduto a un tavolo con arabeschi dorati e circondato da tre soldati in alta uniforme, ha firmato il trattato di annessione della Crimea ha toccato i cuori e le menti dei russi. «I nostri cuori non possono restare freddi. La nostra storia comune, le radici della nostra cultura e le sue origini spirituali, i nostri fondamentali valori e la stessa lingua ci uniscono per sempre », si legge in un appello di cento grandi nomi dell’arte e della cultura, tra i quali Valerij Gergiev, direttore stabile della London Symphony Orchestra. Anche i tradizionali avversari o critici di Putin, compreso Mikhail Gorbaciov, si sono uniti al coro. Dmitrij Agranovskij, un avvocato che ha difeso in tribunale decine di attivisti dei diritti umani, ha accompagnato un tweet con la foto di un blindato russo in Crimea con questo inno alla gloria: «Alzati, Grande Paese! Levati per la lotta mortale contro le forze oscure del fascismo!». Perfino Aleksej Navalnyj, il blogger oggetto di persecuzioni giudiziarie, tacitato per due mesi prima e durante le Olimpiadi con arresti domiciliari senza telefono e internet, ha finito per allinearsi ricordando in un lungo e articolato post che l’Ucraina non è un paese straniero per i russi: «Datemi pure dello sciovinista slavofilo, ma la cosa più importante per la Russia è di avere rapporti fraterni con l’Ucraina e la Bielorussia».
Nel Dna secolare dei russi c’è sempre stata la vocazione imperiale. E Vladimir Putin, che è la quintessenza di quello che là chiamano orgogliosamente «un vero uomo» (secondo un’espressione molto machista della lingua di tutti i giorni, che si attaglia perfettamente all’ex colonnello del Kgb), l’ha risvegliata e solleticata, questa voglia di Impero, che la fine dell’Urss pareva aver sopito.
La grande differenza tra l’imperialismo sovietico, che Stalin agitò con i discorsi alla radio in tempo di guerra, e che i suoi successori esercitarono in modo brutale con gli interventi «fraterni» in Ungheria e Cecoslovacchia, e l’imperialismo russo di oggi è che questo non è sostenuto da (o giustificato con) un’ideologia. Putin è un realista pragmatico, qualcuno dei cantori che fioriscono attorno al Cremlino, come in tutte le corti imperiali, lo accosta addirittura a Henry Kissinger. Putin non invoca la vittoria del comunismo, o del «socialismo realizzato» come diceva Suslov, l’ideologo di Breznev. Bensì fa appello alle «radici », ai «valori comuni della nostra storia», alla «Grande Madre Russia», piroettando tra il comunismo ateo (che aveva appreso alla scuola del Kgb) e il patriottismo religioso.
Se c’è un modello imperiale al quale ispirarsi per Putin questo è impersonato da Caterina II, che i russi ricordano come Ekaterina Velikaja (Caterina la Grande), la prima ad annettere la Crimea nel 1784 sottraendola all’Impero ottomano. E forse proprio a lei pensava Putin quando ispezionava gli impianti olimpici di Sochi, belli fuori e malconci dentro. Come erano i «villaggi Potemkin», che l’astuto consigliere della zarina preparava per le sue visite con facciate di cartone che nascondevano le brutture della realtà.
La Crimea, d’altronde, è un paradigma della vocazione imperiale della Russia. È stata la causa di due guerre (quella russo-ottomana dal 1787 al 1792, dopo l’annessione russa di tre anni prima e quella del 1854-55 con la quale inglesi, francesi e Regno di Sardegna, alleati con i turchi, cercarono di fermare l’espansionismo russo verso Costantinopoli). È stata l’ultima roccaforte dell’Armata bianca anti-bolscevica. È stata conquistata dai tedeschi, dopo l’eroica resistenza di Sebastopoli. Liberata dai russi nel 1944, declassata da Stalin, che l’aveva ripulita etnicamente dei tatari, da regione autonoma a semplice Oblast (provincia). E poi regalata dall’ucraino Krusciov con motivazioni piuttosto pretestuose (secondo alcuni perché era semplicemente ubriaco) all’Ucraina, quando però tutti si dicevano «fratelli» sotto l’unica bandiera rossa dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche. Infine lasciata all’Ucraina da Boris Eltsin quando morì l’Urss e la Russia era economicamente troppo affranta e politicamente troppo debole per avanzare rivendicazioni territoriali.
Ed è proprio da lì, dalla rivendicazioni di tutto ciò che è russo (o comunque slavo) per storia, lingua e tradizioni, che è partito Putin per soddisfare le brame imperiali del «vero uomo russo»: che siano l’Abkhazia e l’Ossezia (per le quali ha fatto una guerra alla Georgia), la Crimea o perfino la piccola repubblica di Trans Dnestr per finire, come scrive lo stesso Navalnyj, con l’Ucraina e la Bielorussia. Quando Putin disse che la fine dell’Unione Sovietica era «la più grande tragedia della Storia» non pensava al colosso comunista, ma a un «impero euroasiatico costruito sui fondamentali principi del nemico comune» (l’atlantismo, i valori liberali e democratici, il dominio geopolitico degli Stati Uniti), come scrisse in un libro del 1997 Aleksandr Dugin, oggi assai influente, insieme a un altro super-falco, Aleksandr Prokhanov, nel cerchio sempre più ristretto dei consiglieri di Putin.
Nessuno aveva capito il disegno di Putin in Occidente e ancor meno negli Stati Uniti, dove la sovietologia è stata dismessa dalla Casa Bianca, dal Dipartimento di Stato e perfino dalle università come una scienza obsoleta e inutile e tutti gli studi e le analisi dell’intelligence si sono concentrati sul Medio Oriente, la Cina e Al Qaeda. L’unico che aveva avuto l’intuizione che la vocazione imperiale russa potesse prima o poi risorgere dalle ceneri dell’Urss era stato Bill Clinton quando aveva detto al suo sovietologo Strobe Talbott, che si lamentava dell’erraticità del comportamento di Eltsin, bevitore, fumatore, donnaiolo: «Meglio avere a che fare con un Eltsin ubriaco che con un suo successore sobrio». Cinque anni dopo al Cremlino arrivò Putin. Sobrio, glaciale, marziale. E imperiale.