Sergio Luciano, Milano Finanza 20/03/2014, 20 marzo 2014
CHE COSA SPIEGA L’USCITA DEGLI ALEOTTI DA MPS
«Debitori di riferimento», li chiamava con sottile e perfida ironia un banchiere di alto lignaggio come Sergio Siglienti, già amministratore delegato e poi presidente della Comit, un apostata nella nidiata di Enrico Cuccia. Alludeva ai tanti imprenditori che, nei decenni, il Grande Vecchio di Mediobanca aveva protetto e pilotato - ultimo tra essi, Ligresti - affinché, in cambio, investissero parte dei denari ricevuti in prestito dagli istituti della galassia di via Filodrammatici in quote azionarie di quegli stessi istituti, a sostegno del management delle banche che il geniale banchiere controllava.
Non è questo il caso del cospicuo investimento fatto dalla famiglia Aleotti nel Monte dei Paschi di Siena, che l’aveva portata, pochi mesi prima dell’inizio della crisi da cui ormai l’istituto sta uscendo, a comprare fino al 4% del capitale, collocandosi come secondo azionista alle spalle della Fondazione.
Gli Aleotti avevano investito denari propri in una banca che era sempre stata vicina al loro gruppo e nel cui futuro credevano. Ci hanno rimesso non poco, e ne sono in gran parte usciti per non dover investirci altri soldi.
Ora il mercato si aspetta che nell’azionariato del Monte entrino investitori istituzionali stranieri. Già, stranieri. Perché di italiani adatti alla bisogna non ce ne sono quasi. E infatti non sono e non possono essere considerati investitori istituzionali - per definizione - le persone fisiche, gli imprenditori. Investitori poco o nulla istituzionali, appunto, che hanno interessi a breve termine e non di rado confliggenti con quelli delle società cui partecipano.
In Italia mancano all’appello i fondi pensione, nati tardi e rimasti piccoli, oltre che fieramente diffidenti (diversamente dai colossi americani) nei confronti degli investimenti nell’azionario. Mancano all’appello le fondazioni di origine bancaria, che si sono sfiancate in molti casi per conservare il controllo degli istituti a esse conferite. In Italia sono piccoli o assenti i fondi di private-equity, e non a caso di questa categoria vediamo affacciarsi in Piazza Affari solo qualche campione straniero, Blackstone per fare un esempio.
Se si esamina l’azionariato istituzionale presente nelle grandi società globali italiane - Eni, Enel, Generali, Fiat, Unicredit, Intesa e poche altre - si contano solo nomi stranieri. Forse non è tardi per porre rimedio a questa grave lacuna, incentivando la crescita dei nostri fondi pensione e di private equity. In assenza di ciò, il nostro capitalismo è condannato al nanismo. Un buon tema, per una prossima riforma del governo del Fare, oltre al rincaro della tassazione delle rendite finanziarie.