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 2014  marzo 20 Giovedì calendario

UN POPOLO IN FUGA (ANCHE DALLA LEGA) PER SOPRAVVIVERE


Gli autoconvocati veneti stanno raggiungendo un risultato straordinario e ben oltre ogni più rosea previsione. Un milione di voti sono già stati raccolti e gli organizzatori sperano di poter mettere sul tappeto una valanga di SI sulla sovranità del Veneto quando venerdì sera si apriranno le urne. Nell’indifferenza dei media e dei partiti tradizionali un piccolo gruppo di volontari, con pochi soldi e ancor meno mezzi, ha deciso di gettare il cuore oltre un ostacolo di nome Italia.
Mentre il Paese propone come prima martellante notizia una carnevalata in piena quaresima di nome “spending review”, i veneti hanno ormai compreso che l’Italia è parte del problema e quindi non può esserne la soluzione. Dopo mesi nei quali il ministro Fabrizio Saccomanni raccontava che trovare 500 milioni era impossibile, è arrivato Carlo Cottarelli il quale ci assicura invece che si possono tagliare ben 3 miliardi di spesa e, con grande, ma grandissimo, coraggio politico, fino a 5 nei prossimi 8 mesi. Ecco, alla fine, la certificazione del fallimento: la spesa pubblica è di 830 miliardi di euro, il debito pubblico di 2.100 miliardi, dire che si possono abbassare le spese rispettivamente dello 0,36 e 0,14 per cento significa affermare ciò che la romana burocrazia sussurra da sempre: «nun se po’ fa». La spesa è incomprimibile, anzi aumenta costantemente (nel 2001 era di 600 miliardi di euro) insieme al debito pubblico (aumenta di quasi un miliardo al giorno) e quindi un’altra spremitura fiscale è l’unica soluzione. «È l’Europa che ce lo chiede», racconta una classe politica decotta.
TAGLIARE LE BRICIOLE
In breve, proprio il buon Cottarelli mostra conclusivamente che non esiste alcuna proposta politica volta ad abbattere debito, tassazione e spesa pubblica (per non parlare della rapina fiscale ai danni delle regioni del Nord, che quando non viene grossolanamente negata è considerata la normalità della politica italiana). Tutti sanno, ma nessuno muoverà un dito per evitare il baratro. L’era Breznev in Unione Sovietica verrà considerata una stagione di grandi e coraggiose riforme, rispetto a questi ultimi anni di Italia.
Se «follia è ripetere costantemente la stessa azione ed aspettarsi un risultato diverso», in Veneto hanno ormai compreso che è tempo di imboccare un’altra via. La strada è impervia e ricca di incognite, ma passa dalla disgregazione di questo mostro burocratico e immobilista. Il che pare ormai l’ultima speranza di un popolo che sta morendo di tasse, debito pubblico e di un fardello ormai insostenibile: gli aiuti a fondo perduto nei confronti delle regioni del Sud Italia. È vero, l’intera spesa pubblica è fatta di soldi di cui nessuno è responsabile, di quelli che «più ce n’è meglio è», estratti da milioni di contribuenti senza volto e senza diritti, che non hanno alcun modo di far sentire la propria voce e chiedere come sono stati spesi. Ma nella drogata economia pubblica italiana le regioni non sono tutte uguali davanti al fisco: i danari in più, quelli con cui oliare la macchina del consenso, vengono da una sola parte del Paese.
«Primum vivere», dicono i saggi. Il Veneto (e, naturalmente, la Lombardia) se continua a mantenere Mezzogiorno e debito pubblico prepara la propria rovina finanziaria. Nessuno è più in grado (semai lo è stato)di impegnarsi sui due fronti del dramma italiano, il Meridione e il buco di bilancio di mezzo secolo di malgoverno. Ogni anno il Veneto lascia sul campo il 10 per cento della ricchezza che produce. Il linguaggio un po’ esoterico lo chiama «residuo fiscale», ma è un’autentica rapina: circa 14 miliardi di euro sono la quota associativa per il privilegio di far parte dell’Italia. E il fatto che i lombardi paghino una quota quattro volte più elevata (quasi 60 miliardi di euro, il doppio pro capite) è una ben magra consolazione.
Due sono i fattori oggettivi e identitari che pongono il Veneto all’avanguardia. In primo luogo, la plurisecolare storia di Venezia che attraversa Medio Evo ed età moderna è stimolo e ispirazione alle battaglie dell’oggi. Si tratta di riallacciare il filo del tempo con una storia di autogoverno e di saggezza amministrativa, un modello di ordine, sicurezza, rispetto dei patti e della proprietà, che è senza dubbio fra i più gloriosi nelle aree italiche.
IL DOPO-CARROCCIO
Il secondo fattore, non meno importante, è di carattere politico: la Lega Nord sta rapidamente scomparendo dal panorama politico veneto. Il che toglie l’equivoco della Padania, entità immaginaria che occulta venti anni di immobilismo assoluto. È vero che la Lega prendeva molti voti, in funzione anti-romana, ma fra i tentennamenti di Luca Zaia e la smania tricolore di Flavio Tosi qualunque credito politico è ormai svanito. Mentre i vari movimenti indipendentisti chiedono a gran voce l’indizione del referendum per l’autodeterminazione, Matteo Salvini… raccoglie firme. Nulla avrebbe potuto esemplare in modo più trasparente la volontà di procrastinare sine die l’indipendenza del Veneto da parte di una forza politica che esprime ancora il presidente della Regione.
La contrapposizione geografica in Italia è stata generata dalle politiche clientelari e assistenziali accompagnate dall’inerzia colpevole dei produttori e dei consumatori di tasse. La politica ha generato il problema e si è rivelata poi incapace di trovare una soluzione. Per decenni una vera riforma federale – che comunque avrebbe significato la fine dei trasferimenti al Sud – poteva forse essere la soluzione. Il quadro è oggi ultra semplificato e va verso la richiesta forte e chiara della decomposizione di un’unità che non giova proprio a nessuno e che sta rapidamente trascinando il Mezzogiorno «a Sud di nessun Nord».