Federico Fubini, la Repubblica 20/3/2014, 20 marzo 2014
MATTEO NELLA GABBIA DEL FISCAL COMPACT
Difficle che Matteo Renzi abbia avuto tempo in questi giorni di fermarsi a leggere quello che John Maynard Keynes scriveva nel 1925. «Metà della saggezza dei nostri statisti si basa su presupposti che un tempo erano veri, o veri in parte, e ora sono sempre meno veri». Ma è come se il premier lo avesse fatto.
A giudicare da ciò che dice, il presidente del Consiglio non potrebbe concordare di più con il grande economista inglese. Ieri alla Camera ha espresso un concetto del genere in forma più adatta ai tempi: «Il tema del 3% nel rapporto tra deficit e prodotto interno lordo è obiettivamente anacronistico». In passato Renzi aveva osservato che quella soglia fu inventata «quando ancora non c’era Google, quando la Cina o l’India non erano ancora esplose». Quel vincolo per lui appartiene a un’altra epoca, anche se il premier si impegna a rispettarlo visto che l’Italia l’ha sottoscritto.
Quando era Keynes a esprimere un concetto del genere, parlava della rincorsa velleitaria della Bank of England per riportare la sterlina nel Gold Stardard alla parità di prima della Grande guerra. Oggi però le sfide sono diverse. C’è sì la «saggezza degli statisti». Poi però esistono anche accordi europei sui conti pubblici che l’Italia ha appena sottoscritto. E, per inciso, ci sono anche i fatti. Uno di questi è che quando la regola del 3% fu fissata nel Trattato di Maastricht nel 1992 il debito pubblico del governo di Roma era al 120% del Pil, mentre quest’anno si avvicinerà al 134% o forse al 137%, se davvero verranno pagati i debiti commerciali della pubblica amministrazione. Non è un dettaglio da poco, se non si vuol condannare la prossima generazione a vivere sotto una cappa di debiti come le generazioni scorse hanno condannato questa. I calcoli sono presto fatti: secondo una simulazione di Reuters, con una crescita nella media dell’ultimo decennio, un’inflazione e un costo del debito bassi come oggi e un surplus di bilancio prima di pagare gli interessi appena minore di quello del 2013, tra vent’anni il debito pubblico dell’Italia sarà enorme. Il 120% del Pil. Soggetto a scossoni ogni volta che uno choc interno o internazionale colpirà il Paese: e inevitabilmente capiterà.
È per provare a prevenire uno scenario del genere nei prossimi vent’anni, non per tornare indietro di altri venti, che l’Italia ha appena cambiato la propria costituzione in linea con i recenti accordi europei. Il Fiscal Compact, il quadro attuale di regole di bilancio, è stato firmato da tutti i Paesi il 2 marzo 2012. Con un provvedimento del 20 aprile 2012 il Parlamento italiano integra i principi europei in Costituzione in questi termini: «Lo Stato assicura l’equilibrio fra le entrate e le spese del proprio bilancio, tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico. Il ricorso all’indebitamento è consentito solo al fine di considerare gli effetti del ciclo economico e previa autorizzazione delle Camere a maggioranza assoluta, al verificarsi di eventi eccezionali. Le pubbliche amministrazioni assicurano l’equilibrio dei bilanci e la sostenibilità del debito».
È la traduzione italiana di una griglia europea recente come la crisi che l’ha generata: l’impegno mira a migliorare ogni anno il saldo di bilancio (al netto delle fasi recessive), mirare a un sostanziale pareggio e, dal 2016, ridurre il debito a passo accelerato. Regole «stupide », come dieci anni fa definì la prima versione del Patto di stabilità Romano Prodi? Sì, se applicate illudendosi che bastino a se stesse e senza tenere conto dell’elasticità che vi è costruita dentro. Regole anche soffocanti, se fatte funzionare come una camicia di forza fra europei che non hanno smesso di fidarsi gli uni degli altri.
Quanto a questo, con il suo debito, la crescita cronicamente assente e una politica illeggibile, l’Italia non fa molto per creare fiducia intorno a sé. La Commissione europea le ha chiesto in novembre (a Palazzo Chigi c’era ancora Enrico Letta) di spiegare meglio come e quanto intende privatizzare quest’anno e quali tagli di spesa vuole fare. Solo con questi chiarimenti, Bruxelles permetterà al Paese di creare un po’ di deficit in più nel 2014 per sostenere la ripresa dell’economia. Ma sono passati quattro mesi da allora e Renzi di privatizzazioni per ora non parla: senza di esse, il debito salirà ancora di più. Quanto alla spending review, le proposte «tecniche» ci sono ma le decisioni politiche non ancora.
A Berlino tre giorni fa, Renzi ha sinceramente impressionato Angela Merkel e il suo ministro degli Esteri Frank-Walter Steinmeier con la sua professionalità, lo stile concreto e la voglia di affrontare i nodi che soffocano il Paese. La cancelliera osserva con interesse e con il beneficio del dubbio: lascerà che sia Bruxelles a ricordare all’Italia i rischi e le regole di bilancio. Ma, per Renzi, preparare questa verifica annunciando una «lotta contro un’Europa espressione della burocrazia» non è forse il modo più efficiente di creare fiducia intorno ai suoi piani. Dopotutto, anche voler rigiocare a tutti i costi il 1925 di John Maynard Keynes è un anacronismo.