Milena Gabanelli, Corriere della Sera 20/03/2014, 20 marzo 2014
RADIOGRAFIA DEI CONTI DELL’ENI CESSIONE SNAM E IL DESTINO DI SAIPEM
Nel giro di qualche settimana si conosceranno le intenzioni del governo sul rinnovo dei vertici di alcune società a partecipazione pubblica. La più importante è l’Eni, e il premier dovrà decidere se confermare Scaroni per il quarto mandato o sostituirlo. Per il gioiello dell’industria italiana tempo di bilanci dunque, e su quello del 2013 compare un utile netto di 5,2 miliardi di euro con un prezzo medio del petrolio di 108,7 dollari a barile. Non un bel risultato se si calcola che nel 2005, quando Scaroni è arrivato all’Eni l’utile netto è stato di 8,8 miliardi con un prezzo del greggio di circa 54 dollari a barile. Addirittura inferiore agli utili dei primi anni 2000 (6 miliardi) quando il greggio era a 30 dollari. È vero che sono calate le vendite, ma la stessa Eni ha continuato a dichiarare nei suoi bilanci che ogni dollaro di aumento del prezzo del petrolio comporta un utile netto aggiuntivo di 200 milioni di euro per la società. Con il prezzo raddoppiato in 8 anni, dove sono finiti i soldi? Occorre inoltre considerare che nel 2013 c’è stata la cessione ai cinesi di una quota del giacimento in Mozambico per 4,21 miliardi di dollari, e la rivalutazione delle partecipazioni in Artic Russia, ed è proprio la vendita di asset che permette di distribuire alti dividendi. Fino a quando?
L’indebitamento finanziario netto è passato dai 10,4 miliardi del 2004, ai 15,5 miliardi del 2012. Eppure nel 2012 l’Eni ha ceduto un pezzo: Snam Rete Gas.
Questi risultati si sono riflessi nella performance di borsa, deludente rispetto alle grandi società petrolifere internazionali. Non ha fatto peggio la Bp, che ha dovuto scontare il disastro nel Golfo del Messico, o la spagnola Repsol, che ha subito la nazionalizzazione dei suoi giacimenti in Argentina. La Exxon e la Chevron sono vicine ai massimi storici, grazie alla bolla «shale gas», però meglio di Eni sono andate anche le europee Total e Shell.
La commercializzazione del gas nel 2013 arriva ad una perdita di 1,5 miliardi. È vero che la domanda è diminuita e la concorrenza aumentata, ma fu l’Eni guidata da Scaroni a rinnovare, nel 2007, quegli onerosi contratti take or pay con la Russia, celebrati come una grande opportunità di business. A causa di quei contratti l’Eni è costretta a pagare alla Russia gas senza poterlo ritirare, per mancanza di domanda. E questo fatto proietterà perdite vicino ai 2 miliardi nel 2014.
Anche il settore raffinazione nel 2013 chiude con una perdita di oltre 600 milioni. Poi c’è il tasto dolente della petrolchimica. Il percorso di innovazione avviato da Maugeri a fine 2010 con la chiusura di Porto Torres (il sito che aveva perdite maggiori) e la riconversione a «chimica verde», redditizia e in grado di assorbire la forza lavoro del sito stesso, si è interrotto. L’Eni è dovuta intervenire perché la società aveva le casse vuote. A rischio chiusura è il sito di Priolo, il più grande d’Italia, e la raffineria di Gela, con la conseguenza che la situazione in Sicilia potrebbe diventare esplosiva.
L’Eni controlla il 43% di Saipem, gioiello di ingegneria e costruzioni nel settore idrocarburi. Nel 2013 la perdita è stata di 159 milioni. Mentre sono in corso le indagini per corruzione internazionale il prezzo in borsa è quasi dimezzato.
Ora l’Eni sta pensando di ridurre la sua partecipazione con la fusione di Saipem con Subsea7, una società norvegese molto più piccola, che con l’8% del capitale si prenderebbe la guida operativa e finanziaria della società. Un’ipotesi che porterebbe alla perdita di un altro gioiello dell’industria italiana.
Un settore che ancora tiene è quello dell’Esplorazione e produzione, ma anche qui i numeri sono in calo. Il 2013 si è chiuso con una produzione di 1,6 milioni di barili al giorno, nel 2005 era di 1,7 milioni. Oltre il 90% della produzione di petrolio e gas proviene da progetti avviati negli anni 90 e primi 2000. Le ragioni geopolitiche (Libia, Nigeria, Iraq) addotte dalla società per spiegare i risultati deludenti, sono una costante per ogni società petrolifera, che infatti calcola la produzione futura diminuendola del 5%, in modo da poter annunciare al mercato obiettivi abbastanza sicuri. L’Eni questo calcolo non lo fa più.
Uno dei motivi che hanno contribuito al declino della redditività dell’Eni è proprio lo spostamento della produzione dal petrolio al gas, che nel 2013 (i dati non sono ancora noti) dovrebbe aver superato per la prima volta quella del petrolio. Il giacimento scoperto in Mozambico è ingente, ma non c’è mercato locale, trasportarlo costa molto e non esiste nessuna infrastruttura correlata, tutto va costruito e questo alimenta dubbi sulla redditività futura. Preoccupante è anche il declino delle capacità operative della divisione Esplorazione & produzione. Emblematico è il caso dei continui problemi nell’avvio del giacimento di Kashagan (Kazakhstan). Il più grande giacimento di petrolio scoperto nel mondo negli ultimi 30 anni. Nel 2000, sotto la gestione Mincato, l’Eni si aggiudicò la guida operativa superando giganti come Exxon, Shell, Total. La prima produzione doveva partire nel 2005, poi è continuamente slittata. La società ha inanellato una serie di errori e incidenti che hanno portato il Kazakhstan a togliere all’Eni la guida operativa unica del progetto. Ora il Kazakhstan si rifiuta di riconoscere costi per 40 miliardi di dollari già sostenuti dalle società che fanno parte del consorzio di sviluppo, fra cui l’Eni, che partecipa con il 16,8% .
Ci sono poi le riserve e produzioni di petrolio, drasticamente ridotte a vantaggio di quelle del gas naturale, che hanno una redditività molto più bassa. Scelte che produrranno i loro effetti nel tempo, pesando sui conti. In caso di una caduta significativa dei prezzi del greggio, i risultati del settore Esplorazione & produzione rischiano di non compensare più le altre perdite. Certamente Scaroni potrà obiettare che la crisi di questi anni ha pesato su tutto; di sicuro non ha pesato sul suo stipendio, passato da 2,2 milioni ai 6,5 milioni del 2013.
Un discorso a parte merita la gestione del personale: negli ultimi anni sono state annunciate assunzioni di giovani (molti in realtà con contratti a termine) a fronte di pesanti tagli di personale italiano mandato in mobilità lunga (7 anni) e con un ricorso vergognoso alla cassa integrazione.
Poi ci sono le numerose inchieste giudiziarie per corruzione internazionale. L’emergere di responsabilità maggiori anche nelle inchieste relative a disastri e bonifiche ambientali, potrebbe avere pesanti ricadute sui mercati.
La situazione dell’Eni richiede di essere affrontata con profonda conoscenza dei problemi, poiché ogni settore ha una tale complessità e tecnicalità specifica che rende più complicata la soluzione di tante crisi. Un manager esterno al settore galleggerebbe sui problemi, venendone probabilmente sopraffatto. Non a caso, nell’industria petrolifera mondiale, i manager di vertice vengono coltivati e selezionati all’interno mediante percorsi di formazione che prevedono un’ampia rotazione tra settori diversi o una lunga presenza in corporate – cioè al centro del sistema.
I numeri sono freddi, certamente il ministro Padoan e il premier Renzi sapranno leggerli, per poi decidere la cosa giusta. Sarebbe bene anche rivedere il criterio delle buonuscite, che ad oggi vale per tutte le società a controllo pubblico. In caso di non rinnovo del mandato, Scaroni dovrebbe incassare 8 milioni. Uno schiaffo alla miseria.