Paolo Rastelli, Corriere della Sera 20/03/2014, 20 marzo 2014
DALLA VITTORIO VENETO ALLA GARIBALDI QUEI SIMBOLI DI UNA GRANDEZZA MAI AVUTA
I bilanci pubblici sono in profondo rosso, non abbiamo abbastanza soldi per attuare riforme indispensabili, è necessario fare cassa. Sono cose che sappiamo tutti. Ma certo l’idea che per ricavare e risparmiare alcune centinaia di milioni stiamo pensando di vendere la portaerei Garibaldi, una delle due navi ammiraglie della nostra flotta militare (l’altra è la Cavour, varata nel 2009), un po’ di effetto lo fa. Ma come, viene spontaneo domandarsi, meno di un secolo fa, più o meno negli anni 30 del Novecento, avevamo una delle marine più grandi del mondo e ora ci vendiamo le navi?
Intendiamoci, è una cosa che fanno tutti, quello di cedere i sistemi d’arma usati prima che siano irrimediabilmente sorpassati: se verranno confermate le indiscrezioni diffuse da RID, Rivista italiana difesa, l’Angola, l’acquirente dato in pole position, farà sicuramente un buon affare comprando la Garibaldi che ha almeno altri 5 anni di vita operativa utile. Ma comunque la risposta alla domanda sta proprio nelle quattro parole «meno di un secolo fa». In termini tecnici e geopolitici, è passata un’era. E l’Italia da molti anni non è più una grande potenza (come non lo è più, tanto per fare un esempio, la Gran Bretagna). E poi, diciamoci la verità, non è che le nostre navi ammiraglie abbiano mai brillato. Non per colpa delle navi, naturalmente, spesso di buona costruzione e progettazione, né per mancanza di coraggio e dedizione dei marinai. Diciamo che non sempre la nostra politica navale e le nostre scelte tattico-strategiche sono state all’altezza.
L’ammiraglia in una squadra navale è quella in cui è imbarcato l’ammiraglio, ossia il comandante in mare di un gruppo di navi. Di solito è anche una «capital ship», ossia il tipo di nave senza la quale una flotta di una grande potenza non può dirsi tale. Al giorno d’oggi le capital ship sono i sottomarini nucleari dotati di missili strategici, durante la Seconda guerra mondiale e fino a tutti gli anni 70 del Novecento erano le portaerei, prima ancora il ruolo era ricoperto dalle navi da battaglia, corazzate e armate di grandi cannoni.
Nella seconda metà dell’800 le navi principali delle flotte erano le pirofregate, vascelli a propulsione mista vela/vapore costruite in legno. E fu su una pirofregata, la Re d’Italia , che si imbarcò l’ammiraglio Carlo Pellion di Persano diretto a Lissa insieme al resto della flotta italiana nel 1866, dopo lo scoppio della terza Guerra di indipendenza. Persano condusse le sue navi così male che alla sera del 20 luglio la sua ammiraglia era in fondo al mare e la marina del neonato Regno d’Italia aveva incassato la sua prima bruciante sconfitta. L’ombra di Lissa pesò a lungo sul morale e sull’immagine della Regia Marina italiana, tanto che ebbe larga circolazione la battuta attribuita a Giovanni Giolitti, primo ministro agli albori del secolo scorso. Rispondendo al re che si lamentava dei generali, sembra abbia detto: «Vostra maestà dice così perché non conosce gli ammiragli».
Tuttavia nella Grande Guerra e ancora di più nel periodo tra le due guerre la Marina recuperò spirito e mezzi: d’altronde la politica di potenza del fascismo richiedeva una grande flotta. Tra il 1911 e il 1916 entrarono in servizio quattro navi da battaglia, Cavour , Cesare , Doria e Duilio , poi estesamente rimodernate negli anni 30. Nella seconda metà dello stesso decennio vennero poi impostate, varate e allestite altre tre navi da battaglia da 35 mila tonnellate, la Littorio , la Vittorio Veneto e la Roma , potenti e ben costruite. Furono tutti vascelli che si possono a buon diritto definire «ammiraglie» e che diedero alla Regia Marina la fama di arma potente e temibile.
Eppure, alla prova del fuoco del secondo conflitto mondiale, furono deludenti: per esempio, per quanto è possibile sapere e per quanto possa sembrare incredibile, non uno dei colpi sparati in battaglia dai cannoni delle tre «35mila» andò mai a segno. Troppa prudenza nell’impiego, scarsa attitudine al combattimento notturno e con tempo cattivo, dottrine di impiego antiquate, scarsità di nafta, difetti di leadership. Molte furono le cause delle prove opache, troppe perché si possano elencare e spiegare qui. Ma si può affermare con tranquillità che i veri grandi successi della nostra Marina non sono mai stati ottenuti dalle ammiraglie. Il 10 giugno del 1918 furono due MAS, motoscafi armati di siluri, ad affondare la corazzata austriaca Santo Stefano al largo di Premuda, nell’Adriatico. E il 19 dicembre del 1941 sei assaltatori colarono a picco nella rada di Alessandria d’Egitto due navi da battaglia britanniche, la Queen Elizabeth e la Valiant , la perdita più grave inflitta alla Royal Navy dalla Regia Marina. Forse davvero per noi italiani, in pace e in guerra, sono l’iniziativa e l’individualismo che fanno quasi sempre premio sulle dimensioni.