Laura Pezzino, Vanity Fair 19/3/2014, 19 marzo 2014
VIOLETTA BELLOCCHIO CONFESSO CHE HO BEVUTO
Ho perso la memoria. Gli anni peggiori – dai 25 ai 28 – non ci sono più. Non è una bugia e non cerco di ricostruire una sola notte.
Tre anni di nero, vomito, puzza di pelle, di ospedali, flebo, sangue nel letto, vestiti rotti, ansiolitici, lattine di birra in fila per quattro. Violetta Bellocchio, che non tocca più un bicchiere da otto anni, ha scritto le proprie memorie di ex alcolista, e le ha intitolate Il corpo non dimentica, perché lei ci aveva provato a inghiottire tutto e mandare giù, eppure...
Eppure, quando un paio di anni fa ha deciso di spingere il secchio oltre l’orlo del pozzo, invece di sentirsi morire è rinata. «Più andavo avanti nella scrittura, più recuperavo i ricordi, più stavo bene fisicamente. Uno dei momenti più belli della mia vita». Chi l’avrebbe detto.
Scrittrice tra le più apprezzate in Italia, nipote del regista Marco («col cinema ci ho provato da ragazza come sceneggiatrice, poi non è più capitato»), figlia della famosa psicanalista Lella Ravasi («è stata preoccupata per me. Ma non parlo di lei, è un personaggio pubblico»), Violetta è una donna intensa e di una gentilezza estrema.
Con lei bevo vari caffè in un bar hipster di Milano, e la prima cosa che ci diciamo è che con tutte le volte in cui nel libro fa tappa nei bar (per bere e piangere, principalmente) ci si potrebbe fare una mappa.
Delle donne ex ubriacone si parla poco, nonostante a loro la lettera scarlatta resti appiccicata infinitamente più a lungo che a un uomo. «Basti pensare a Britney Spears, che per molti è rimasta una poraccia», dice lei, e aggiunge: «Quello di cui non si parla abbastanza è che si può smettere, e non si muore. Se ce l’ho fatta pure io, che ho la forza di volontà di una libellula...».
Il suo primo bicchiere?
«Ricordo meglio la prima sbronza. Avevo 17 anni, ed ero a una festa di ragazzi ricchi di Milano. Sarà che mi sentivo fuori posto per non essere abbastanza bella e consapevole come quei diciottenni fighi, ma avevo bevuto tantissimo. Così quando sono andata in bagno, sono rimasta chiusa dentro. Era il peggior posto al mondo dove ubriacarsi e rimanere chiusa in bagno, al sesto piano di una casa a Brera. Non ho nessun ricordo di come ne sono uscita».
Non era spaventata?
«Terrorizzata. Mi si agitava in testa un vago “non lo farò più”, ma in fondo c’era qualcosa che mi spingeva a farlo. In termini analitici la chiamano “ombra”».
L’ultimo drink?
«Una birra in un bicchiere di plastica al McDonald’s di piazza 24 maggio a Milano. Era il 15 gennaio 2006. Mi ero svegliata con un dopo sbronza colossale e avevo chiamato gli Alcolisti Anonimi. La sera stessa ci sarebbe stato un meeting, ma l’unico modo per essere sicura che sarei andata era restare fuori tutto il giorno: se fossi tornata a casa mi sarei dissuasa da sola».
Che cosa c’era in quel bicchiere per diventare l’ultimo?
«Era solo una birra di sopravvivenza, come prendere un’aspirina per il mal di testa».
Quando ha deciso di smettere?
«Ci pensavo da settimane. Anche quando bevevo, sapevo quello che ero diventata. E non volevo smettere perché mi piaceva».
Sono pochi quelli che lo ammettono.
«Con la stessa facilità avrei potuto farmi di coca, ma non ho avuto un fidanzato spacciatore. Ho conosciuto tante donne con problemi di dipendenza: eravamo disordini ambulanti in cerca di un sintomo forte».
Lei ha trovato l’alcol.
«È economico, legale e lo vendono all’autogrill. Ero alcolista prima di iniziare a bere. Ho smesso quando ho afferrato che avrei avuto davanti almeno altri vent’anni così: sempre più ubriaca, grassa, gonfia. E continuare a perdermi le possibilità della vita».
Perché ha iniziato?
«Ho avuto due bravi genitori, non mi sono mancati gli abbracci. Non ho subito nessun trauma. Però inseguivo il fantasma della donna artista e autodistruttiva, ma brillante, bella e cool. Poi mi sono resa conto di non essere Courtney Love. E poi c’era la faccenda della bruttezza».
In che senso?
«Da ragazza non passava giorno che non mi dicessero che ero brutta. Se bevevo, almeno mi sentivo amata da quella cosa».
Per questo parla tanto di «invidia»?
«Sono stata invidiosa di tutte. Se una aveva una cosa che io non avevo, anche un biglietto del tram, io gliela invidiavo. Per non parlare delle ragazze belle, la cui bellezza era felicità e amore. È da poco più di un anno che permetto di essere fotografata».
Qualcosa è cambiato?
«Questo libro è anche il mio coming out da donna. Mi sono sempre sentita un misto di caratteristiche maschili e femminili, ma questa volta ho dovuto fare i conti con la donna che per anni avevo dimenticato».
Nel libro fa molto sesso. Ora come va?
«Gli ho sempre dato molta importanza, ma importanza e risultati sono due cose diverse. È una cosa che mi manca, perché in questo momento non lo sto facendo, e conto di ricominciare a farlo presto».
Una sua scelta?
«È sempre un incrocio tra proprie scelte, opportunità, decisioni altrui».
È mai stata innamorata?
«Sì, una volta all’università».
Si dice che le donne cerchino negli uomini qualcosa della figura paterna.
«Voglio bene a mio padre e sono contenta che lui sia mio padre, ma non cerco un uomo come lui».
Che cosa cerca allora?
«Uno più o meno della mia età, carino, attraente, che non si scomponga facilmente e che faccia qualche battuta divertente».
Come gli racconterebbe quella parte della sua vita?
«Gli metterei in mano questo libro».
Tra le righe, è chiaro che il suo ideale è quello di una vita borghese.
«È vero. Non avrei mai pensato che sarei stata single a 36 anni. Ho cercato l’amore nei posti sbagliati, sarà un cliché ma è vero. D’altra parte conosco alcune donne che hanno trovato l’uomo giusto per loro: io le guardo come altri guardano Gravity e penso: “Chissà che cosa si prova ad avere un uomo che sta dalla tua parte”».
I suoi genitori che cosa hanno detto?
«Lo hanno letto tardi e hanno detto di essere felici di avere con me ora un rapporto tra adulti. Mia madre appena lo ha finito è andata a fare la spesa. Ha pensato: “Devo mettere in tavola qualcosa per cena”».
Tra dieci anni come si vede?
«Ha presente quelle biografie di scrittrici che vivono in un ranch con i cavalli, i bambini e il marito? Ecco, una cosa così».
Cosa pensavate che fosse l’alcolismo femminile: un sottile languore mentre cade la pioggia? Per questo, noi, vi chiamiamo «turisti» a volte. Voi volete vedere troppo, sentire meno. Volete sentirci parlare di noi, lo volete tanto, ma arriva sempre il punto in cui per voi diventa tutto troooppo tossico, e ci chiedete per cortesia di smorzare i toni, perché davvero, non è possibile.