Gabriele Romagnoli, Vanity Fair 19/3/2014, 19 marzo 2014
MILAN, ITALIA PARABOLE
& PAPERE –
È sempre stato difficile spiegare l’Italia a uno straniero. Lo è ancora di più adesso.
Davvero il vostro premier non ha vinto le elezioni? In effetti no, però le primarie sì. Quindi è come se una squadra si prendesse la coppa dopo la semifinale? Più o meno. Chi è questo Alfano? Uno che sta al governo con la sinistra, ma se si votasse si alleerebbe con la destra. Dove ha sede la Fabbrica Italiana Automobili Torino? Legalmente, in Olanda. E fiscalmente? In Gran Bretagna. Senti, mi racconti una storia esemplare che mi aiuti a capire? Va bene, ti parlerò del Milan. Ah, il calcio come metafora della vita, giusto? No, quella viene usata quando si vince, quando si perde non vale più, a quel punto non conta il presente ma la storia, ci si rifugia nel passato, nelle bacheche, nei ruderi, nei feticci, quant’era bravo Sacchi, quanto era buono Berlinguer. Sai che non capisco, mi spieghi meglio? Ci provo, tu sta’ zitto mentre io ti parlo del Milan. Procederò per power point, userò delle slide.
PAUSA PUBBLICITARIA
Sugar Man in concerto nel fine settimana a Bologna e a Milano, la musica non è mai finita.
Silvio, il male d’invecchiare
Le hai viste anche tu le foto sul Sunday Times: Berlusconi è una rovina. Mai viste foto più spietate di così. Più false di così. Il diavolo ti frega convincendoti che lui non esista. O ti fa credere di sentirsi alla frutta perché ritiene di avere tutta la vita davanti. Il punto è che non sa più che farsene. Un piede dentro e uno fuori. Nomina successori, ma vuol contare ancora. Delega, ma critica. E non a torto, perché sceglie male. Per forza: l’unico criterio è che siano parenti o famigli. A chi sarebbe venuto in mente di trovare il delfino della politica a Retequattro? Di mettere sulla panchina del Milan un ex giocatore del Milan che non aveva allenato mai? Di affidare il Milan alla figlia Barbara il cui istinto calcistico è provato da un solo nome: Pato.
Barbara, le colpe dei figli
Negli ultimi quattro anni Adriano Galliani, il siò (direbbe lui) del Milan, una cosa giusta aveva fatto: rifilare Pato al Psg, intascare più di venti milioni, spenderne la metà per Tévez e mettere il resto in cassa. Per ragioni sentimentali e d’altro genere i figli di Berlusconi, Barbara in testa, bloccarono l’operazione. La peggior idea della storia milanista dopo la cessione di Pirlo alla Juve. E proprio a Barbara consegnano il Milan.
Il capitalismo italiano segue questo percorso: c’è un nonno che apre una bottega, un figlio che la trasforma in una multinazionale, poi arrivano i nipoti e, a ruota, Enrico Bondi con la rock band dei Liquidatori. La prima mossa però non è stata male (ma peggio): Seedorf.
Seedorf, le colpe degli altri
In Italia funziona così: Marino diventa sindaco di Roma e qualunque cosa vada male lui si difende dicendo che Alemanno gli ha lasciato macerie. Alemanno accusava i buchi di Veltroni. E certo se Nerone non avesse avuto il vizio del fumo. Seedorf gioca con due mediani sotto la media, tre fantasisti senza fantasia e un centravanti fantasma. Uno schema con cui perderebbe a tris. Infatti ne perde tre di fila e dà la colpa ad Allegri, la cui sola responsabilità è non essersene andato alla fine del campionato scorso (e chissà che cosa o chi lo tratteneva). Ha ereditato una squadra pessima ed è riuscito a peggiorarla.
Persino la curva mesi fa esponeva striscioni con strategie sensate di calciomercato, ma Seedorf si è fidato di Galliani.
Galliani, i tempi supplementari
Una vita nel Milan, tanta passione: se comincia a parlare di El Shaarawy va avanti per un’ora. Un uomo di sport, benché poco sportivo. Ha fatto tanto, sbagliato qualcosa, ma poteva andarsene in gloria. Se si fosse fatto da parte quando si è imposta Barbara persino i detrattori gli avrebbero concesso l’onore delle armi. E i contabili una liquidazione da emiro. Il problema è che non avrebbe saputo che farsene. In Italia nessuno va mai veramente in pensione. Sembra ci sia l’orrore del tempo libero. La Sicilia è meglio della Florida, che è pur piena di americani sazi. Bisognerebbe fare una legge e deportarci tutti quelli che hanno già dato. Che si godano Ortigia, Taormina, Marzamemi. Purtroppo non ci andrebbero, preferendo farsi umiliare dal capo e dal pubblico, i cosiddetti tifosi.
I tifosi, il ritorno della democrazia
Qui andiamo di nuovo al punto di partenza. Sembrerebbe che in Italia la democrazia non esista, o meglio sia una simpatica mascherata. Si va a votare, poi il capo dello Stato affida il governo a uno che non è mai stato eletto: Monti, Letta, Renzi. Con l’ultimo proviamo la legittimazione a posteriori. Prima assume la carica, poi si candida per ottenerla. Potrei spiegartela con la filosofia dei pitagorici, o più semplicemente dirti che è normale in un
Paese dove tutto si compra a rate e mutui: prendi prima e paghi dopo.
Esiste però un’oasi di democrazia: la concedono agli ultrà. Se la gente protesta, chissene importa: si partecipa ugualmente all’invasione dell’Iraq, si smantella la scuola e si ridicolizza la giustizia.
Se però la prendono male gli ultrà vanno tutti a rapporto a capo chino: giocatori, allenatore e siò. Promettono di impegnarsi e cambiare rotta per meritarsi la fiducia. Al cospetto dell’unico popolo sovrano: quello della curva.
Mi chiedi per chi tifo io? Per i tocchi di Pogba, i gol di Keita, le tattiche di Garcia, per l’implacabilità del gioco che in qualunque (altra) scatola ha delle regole.