Pietro Greco, L’Unità 19/3/2014, 19 marzo 2014
LE ONDE DI LINDE UNA ROBA DA NOBEL
IERI L’ALTRO, LUNEDÌ, VERSO MEZZOGIORNO IL POSTINO HA BUSSATO UNA SOLA VOLTA ALLA PORTA DI ANDREI LINDE, UN COSMOLOGO RUSSO DA ANNI IN FORZA ALL’AMERICANA STANFORD UNIVERSITY. Lo Scienziato ha aperto la porta e si è visto recapitare una bottiglia di champagne. «Lo hai ordinato tu?», ha chiesto Linde a sua moglie. «No», la risposta. Il vino frizzante gli era stato regalato dai suoi colleghi, per brindare alla prima conferma empirica del modello dell’inflazione cosmica, venuta dal rilevamento indiretto di onde gravitazionali realizzato dalla collaborazione di Bicep2 (Background Imaging of Cosmic Extragalactic Polarization) e annunciata lunedì scorso.
Pare che Andrei Linde abbia brindato di gusto. Perché quella teoria che consente di conciliare la teoria del Big Bang con i fatti osservati è, almeno in parte, sua. E se davvero l’osservazione è degna del Nobel, beh a meritare il premio saranno anche i teorici che l’hanno prevista.
Ma andiamo con ordine. Per farlo, ci conviene tornare indietro nel tempo. Fino all’inizio degli anni ’20 del secolo scorso, quando un altro russo, il giovane matematico Alexander Friedmann, trova soluzioni stabili alle equazioni cosmologiche che Einstein ha elaborato applicando all’intero universo la sua giovane teoria della relatività generale. Alcuni anni dopo, l’astrofisico americano Edwin Hubble «vede» che tutte le galassie si stanno allontanando da noi a velocità proporzionale alla distanza. Più sono lontane e più sono veloci. È allora, alla fine degli anni ’20, che abbiamo scoperto di vivere in un universo in rapida espansione. È allora che abbiamo scoperto di vivere in un universo evolutivo.
Non è facile, tuttavia, spiegare il perché di questa folle corsa. Due teorie si confrontano nell’immediato dopoguerra. Quella elaborata da un altro russo emigrato in America, George Gamow: l’universo è nato, circa 14 miliardi di anni fa, dall’immane esplosione di una singolarità iniziale, un punticino piccolissimo, densissimo e caldissimo in cui era concentrato tutto il nostro universo. Che da allora si espande come un palloncino, a velocità decrescente, raffreddandosi progressivamente. L’inglese Fred Hoyle definisce questa ipotesi con sprezzante ironia: ma è un Big Bang. Da quel momento la teoria di Gamow prende, per paradosso, il nome che gli ha dato il suo avversario. Quando a Hoyle, insieme a Thomas Gold e a Hennann Bondi, di teoria ne elabora un’altra. I tre non amano l’idea di un inizio dello spazio e del tempo. Per di più a partire da una singolarità ove ogni legge della fisica, compresa la relatività di Einstein, viene meno. No, sostengono Hoyle, Gold e Bondi, non c’è stato un inizio dei tempi. L’universo è sì dinamico, ma è sempre uguale a se stesso, si trova in un eterno «stato stazionario»; si espande, certo, ma perché al suo centro c’è una continua generazione di materia.
I fatti, anche in cosmologia, sono le osservazioni. E l’osservazione decisiva è quella realizzata da Arno Penzias e Robert Wilson, nel 1963, quando trovano una radiazione del corpo nero, fredda e omogenea, che ricopre l’intera volta celeste. La radiazione è il fossile della grande esplosione iniziale. È prevista dalla teoria di Gamow e non da quella di Hoyle. E segna dunque il trionfo del modello del Big Bang. Che, resta l’unico in grado di spiegare l’evoluzione dell’universo e diventa il Modello Standard della cosmologia.
Ma, benché sia rimasto sulla scena, anche il modello del Big Bang ha i suoi problemi. Dovrebbe essere un universo curvo, molto curvo quello emerso dalla grande esplosione. Proprio come un palloncino. Invece è incredibilmente piatto. Dovrebbe essere pieno zeppo di monopoli, particelle prodotte nei primi istanti dell’universo neonato. E, invece, non se ne trova uno. La singolarità iniziale, poi, deve aver avuto dimensioni tale da non poter ospitare più poche particelle elementari: da dove è sbucata fuori tutta la materia di cui siamo fatti noi, le stelle, le galassie, gli ammassi di galassie? E via enumerando tutta una serie di problemi mica da poco.
Ecco perché genera attenzione quella strana teoria dell’inflazione che un altro russo Aleksej Starobinskij, dell’istituto di fisica teoria Landau di Mosca, tira fuori dal cappello nel 1979. Cerca di dimostrare, quella teoria, che un istante dopo il Big Bang (10-36, ovvero un miliardesimo di miliardesimo di miliardesimo di miliardesimo, di secondo) il piccolissimo neonato subisce una crescita rapidissima, inflazionaria appunto, di volume, di materia ed energia. Due anni dopo l’americano Alan Guth, riprendendo alcune idee sulle transizioni di fase di Andrei Linde e di David Kirznits (ancora un russo), propone che la crescita inflazionaria di volume e di materia sia avvenuta a densità di energia costante. In un infinitesimo di secondo l’universo neonato, che si è venuto a trovare in una fase instabile (sottoraffreddato, dicono i fisici), ha subito uno sviluppo incredibile: passando da dimensioni micro a dimensioni macro. Da una singolarità alle dimensioni di un pallone di calcio. Dopo questo brevissimo ma decisivo istante, l’espansione dell’universo è continuata a velocità decrescente, così come prevede il Modello Standard di Gamow. Chi ha (chi avrebbe) pagato il conto di questa straordinaria crescita? Beh, a pagare le spese della fase inflattiva e creatrice, sarebbe stata l’energia potenziale cosmica. Come una pallina che rotola dalla cima del monte giù, fino alla valle, diventando una valanga, l’universo sarebbe passato da un massimo a un minimo di energia potenziale, creando valanghe di materia. La teoria dell’inflazione è elegante. Si aggiunge e non sostituisce quella, classica, del Big Bang. Tuttavia ha un piccolo difetto. Non può essere dimostrata. È a questo punto che, tra gli altri, interviene anche Andrei Linde per sostenere che sì, un modo per dimostrare la realtà dell’inflazione c’è. Basterebbe osservare le onde gravitazionali che, secondo la relatività di Einstein, la crescita inflattiva avrebbe creato. E che, come la radiazione di fondo, dovrebbero riempire il cosmo.
UNA CONQUISTA COLLETTIVA
Nel corso degli ultimi trent’anni la teoria ha subito numerosi ritocchi. È stata corroborata da numerose osservazioni. Specie quelle sulla incredibile (ma non assoluta) omogeneità dell’universo bambino realizzata del 1992 da George Smoot e dal satellite Cobe e riconfermata dieci anni dopo a un livello più profondo dall’italiano Paolo de Bernardis e dal pallone Boomerang.
Ma queste osservazioni erano compatibili con il modello dell’inflazione. Consentivano di eliminare ipotesi alternative. Ma non erano la pistola fumante. La prova provata che il modello di Starobinskij, Guth e Linde fosse quello vero. Che l’universo avesse vissuto una fase di inflazione.
Ora la cosmologia è una scienza non sperimentale. O, almeno, con completamente. La storia dell’universo non può essere riprodotta in laboratorio. Anche se, dopo essere emigrato negli Stati Uniti in quel processo di «fuga dei cervelli» che investì la Russia e gli altri paese eredi dell’Unione Sovietica, Linde ha provato a creare, proprio con Alan Guth, un universo da laboratorio. Molte ed eleganti le ipotesi di lavoro. Ma l’impresa non è riuscita.
Non restava dunque, per validare l’ipotesi dell’inflazione e dello stesso modello del Big Bang, che attendere la scoperta delle onde gravitazionali fossili. Rilevare il relitto di quell’esperimento unico che è stata la nascita dell’universo. C’è voluta molta pazienza. Perché la gravita è una forza debole, anche se agisce a grande distanza. E difficilmente riuscirete a catturarle, le onde che produce, aveva previsto Albert Einstein. Ora il momento sembra arrivato. E Alan Guth ha potuto sollevare il suo calice con lo champagne.