Enrico Franceschini, la Repubblica 19/3/2014, 19 marzo 2014
SCOZIA ORGOGLIO E PETROLIO – [INDEPENDENCE DAY]
Con un’unica strada per lo shopping, le vecchie case di pietra dei pescatori in cima al molo e i pub fatiscenti nelle vie del porto, questa piccola città di 200 mila abitanti non sembrerebbe il secondo luogo più ricco del Regno Unito dopo il centro di Londra. Eppure Aberdeen, stretta tra i picchi innevati delle Highlands e il blu intenso del mare del Nord, ha l’1 per cento di disoccupazione, un reddito medio doppio di quello nazionale e più campi da golf per persona di ogni altra località britannica. Il merito è del petrolio. Trovato nel 1970 a un’ora di elicottero dalla costa, ha prodotto finora 40 miliardi di barili di greggio, fornisce (insieme ai giacimenti di gas) il 70 per cento del fabbisogno energetico nazionale e continua a pomparne dalle profondità sottomarine attraverso un arcipelago di piattaforme artificiali. La paga, per gli operai che ci lavorano in turni massacranti di 12 ore al giorno per tre settimane consecutive (ma poi fanno tre settimane di ferie a terra), è mediamente di 67 mila sterline l’anno: 80 mila euro. Solo in tasse, nel 2013 l’oro nero ha portato quasi 7 miliardi di sterline nelle casse del Regno Unito. Se quei soldi li tenesse la Scozia, avrebbe il sesto pil pro capite del mondo. Sarebbe un emirato settentrionale. O un’altra Norvegia. Quello che spera di diventare con il referendum del 18 settembre prossimo.
Anche altre ragioni spingono gli scozzesi a desiderare l’indipendenza. La storia, innanzi tutto: fino a 300 anni or sono, come sa chiunque abbia sentito parlare di Braveheart, la Scozia era uno stato sovrano, che ha orgogliosamente mantenuto tradizioni, identità e lingua (o almeno accento) diversi dall’Inghilterra conquistatrice. Gli scozzesi hanno il kilt, i salmoni, il whisky. E una differente idea dello stato, imperniata su un solido welfare socialdemocratico di tipo scandinavo. Vantando qualche parentela con i vichinghi, in effetti sentono più affinità con la Scandinavia che con la Gran Bretagna. Ma se la Scozia non avesse il petrolio è improbabile che l’aspirazione all’indipendenza sarebbe andata avanti. È la prospettiva di una prodigiosa ricchezza a infuocare la retorica del primo ministro Alex Salmond, capo del governo autonomo di Edimburgo e leader dello Scottish National Party: «Sette dei dieci paesi più ricchi d’Occidente hanno meno di 10 milioni di abitanti », è venuto a dire l’altro giorno ad Aberdeen, riunendo simbolicamente quiilsuoesecutivo.«Oraanche 5 milioni di scozzesi avranno l’opportunità di dimostrare cosa può fare una piccola nazione quando controlla le proprie risorse ». Con gli introiti del petrolio, il premier indipendentista vuole creare un fondo sovrano sul modello di quello norvegese, rendendo ogni scozzese comproprietario del tesoro che sgorga dal mare. E poi vuole aprire più asili, scuole, ospedali, ospizi, biblioteche.
Il problema è che il petrolio del mare del Nord non sgorgherà per sempre. Da dieci anni la produzione cala del 6 per cento l’anno. Il costo di estrarlo è aumentato di cinque volte rispetto al 2004. Le stime più ottimistiche calcolano che ce ne sarà ancora per 40-50 anni. Non è poco, s’intende. Significa altri 24 miliardi di barili: 1500 miliardi di sterline di valore, sebbene la maggior parte finirebbero in tasca alle multinazionali. Come che sia, per un politico mezzo secolo è l’eternità. «La Scozia diventerà indipendente nelle circostanze più promettenti di ogni altra nazione», garantisce Salmond.
Quello sul petrolio non è l’unico dubbiosull’indipendenza.Londra avverte che una Scozia sovrana non potrà mantenere la sterlina come valuta. Qualcuno (il finanziere George Soros) suggerisce che Edimburgo adotti l’euro. Ma la Commissione Europea ammonisce: «La Scozia non entrerebbe automaticamente nella Ue». Tutti i 28 paesi membri dovrebbero essere d’accordo ed è probabile che la Spagna voterebbe contro, per non spingere la Catalogna nella stessa direzione. Il premier scozzese minimizza: «Superare simili ostacoli sarebbe nel mutuo interesse di tutti. Approvata l’indipendenza, li supereremo ». Può darsi che abbia ragione. L’incertezza sull’oro nero, tuttavia, è più insidiosa. «Ci vogliono le spalle larghe della Gran Bretagna per il livello di investimenti necessari al petrolio del mare del Nord», afferma il primo ministro David Cameron, in Scozia anche lui a perorare la causa del “no” all’indipendenza.
È cominciato tutto con la devolution di Blair, poi ci sono voluti anni di trattative tra Londra ed Edimburgo per concordare i termini del referendum. Se divorzio sarà, sarebbe una separazione negoziata e pacifica: un modello di civiltà, ben diverso da quanto sta avvenendo tra Crimea e Ucraina con lo zampino (anzi la minacciosa zampa) dell’orso russo. Secondo l’ultimo sondaggio citato dal Times, a sei mesi dalvotoi“no”all’indipendenzasono in testa 51 a 39 per cento (con un 10 per cento di indecisi), ma i “sì” stanno aumentando. Pur avendo autorizzato il referendum, per Cameron l’indipendenza scozzese sarebbe una rovina: passerebbe alla storia come colui che ha innescato il crollo del Regno Unito. Non è il solo a preoccuparsi. Banche, aziende, società di assicurazioni basate a Edimburgo, annunciano che se vince l’indipendenza lasceranno la Scozia, portando via posti di lavoro. La Shell e la Bp, due delle “sette sorelle” dell’industria petrolifera, consigliano agli scozzesi di non staccarsi da Londra.
Seduto in un pub affacciato al porto, Jake Molley, 17 anni sulle piattaforme, riassume un timore diffuso: «Tireremo fuori il petrolio fino all’ultima goccia. Ci sentiremo ricchi come la Norvegia. E poi, quando il petrolio finirà, cosa faremo?». Qualcosa farebbe. Estrarre petrolio dal mare del Nord ha richiesto l’invenzione, lo sviluppo e l’installazione di nuove tecnologie su una scala comparabile al programma spaziale americano. Le società di ingegneria sottomarina locali gestiscono il 50 per cento del business mondiale del settore. Se chiudesse la “capitale del petrolio europeo”, come viene chiamata Aberdeen, i suoi operai, tecnici, ingegneri, troverebbero lavoro altrove. «Ma qui stanno bene», spiega Robert Collier, presidente della Camera di Commercio. «Vengono per i soldi, dicono che resteranno dieci anni e si fermano per sempre».
A prima vista non si capisce perché. Aberdeen non ha l’eleganza di Edimburgo (per tacere di Londra). Non ha la vita notturna, né le squadre di calcio, di Glasgow (per tacere di Manchester). Il resto della Scozia (è tutto dire) ironizza sulla sua fama di eccessiva parsimonia. Ma è come una città che vive in una bolla temporale: fa pensare a Detroit o Torino prima della crisi industriale, negli anni del boom dell’auto. Una città in cui la classe operaia si sente ancora forte, orgogliosa del proprio mestiere: non ha bisogno di boutique alla moda e lusso sfrenato, le bastano le casette di granito, i pub col biliardo, i campi da golf e — per chi ha lo spirito del marinaio — i night-club di Bridge street a due passi dal porto. Beninteso, è un mestiere duro, come si comprende guardando i preparativi della partenza di un nuovo turno. Prima di salire in elicottero, ogni operaio indossa una muta per le immersioni, in caso di incidente in mare: ce ne sono stati cinque negli ultimi quattro anni. Una volta atterrati sulla piattaforma si lavora e basta, dalle 7 del mattino alle 7 di sera. Si consumano pasti ipercalorici. Si mangia tanta cioccolata. Si fuma molto, al chiuso ovviamente: lì i divieti non valgono. Per alcol e sesso si aspetta di tornare a terra. Qualche volta aspettando più del previsto, seventoonebbiaimpediscono all’elicottero di scendere. «È come trovarsi dentro una navicella spaziale », raccontano.
Come nello spazio, la sicurezza è vitale: tutti ricordano l’esplosione di una piattaforma del mare del Nord nel 1988, morirono 167 operai, il peggior disastro dell’industria petrolifera mondiale. «Sicurezza, sicurezza», ripetono a ogni angolo della città i cartelloni pubblicitari delle società di corsi di sopravvivenza per i lavoratori delle piattaforme. Ma adesso un nuovo genere di insicurezza si insinua fra questi uomini senza paura, con le braccia tatuate e lo stomaco gonfio di birra. Al largo, le petroliere attendono all’ancora; giù al porto, i rimorchiatori vanno e vengono; qui davanti, gli elicotteri si alzano in volo con un nuovo turno di operai. E tutti si chiedono se l’indipendenza sarebbe una manna o una rischiosa scommessa per la Scozia.