Lanfranco Vaccari, SportWeek 15/3/2014, 15 marzo 2014
NIGGER, UN INSULTO DIVENTATO UNA BANDIERA
È forse la parola più offensiva fra le circa 230 mila contenute nei 20 volumi dell’Oxford English Dictionary. Viene da tempi bui, e neppure troppo remoti, di oppressione e dolore. Significa che sei meno di un essere umano, certo non uguale agli altri, comunque detestato. Sono le ultime due sillabe che un numero infinito di neri ha ascoltato prima di essere ucciso in attacchi razzisti, appeso a un lampione per aver votato, fatto saltare in aria con 19 candelotti di dinamite come successe a quattro ragazzine nel bagno di una chiesa battista a Birmingham, Alabama, il 15 settembre 1963. Nigger.
È una parola sterilizzata dal gangster rap. All’inizio, era un modo attraverso cui la gioventù bruciata delle inner-city gridava al mondo la sua totale assenza di autostima, un modo violento di esprimere il proprio malessere. Poi, la deriva commerciale dell’hip hop le ha consegnato quella leggerezza che consente di rivolgersi a una ragazza chiamandola “ho” – uno dei sinonimi di puttana – facendola diventare un vezzeggiativo, un luogo comune, la più ubiqua espressione di fratellanza, equivalente a “bro”. Nigga. È il delicato eufemismo che l’America usa per mettere una barriera fra il suo presente e il suo vergognoso passato prossimo. Il tentativo retorico di separare una parola dal terrore di cui è intrisa e che sprigiona. La “N-word”.
Troppi significati per una parola sola. E questo la fa diventare un tema incredibilmente delicato. Mettendola all’ordine del giorno dell’assemblea dei proprietari che inizia in settimana a Orlando, la Nfl si è data un compito impossibile. Ha accettato il suggerimento della Fritz Pollard Alliance, un’associazione che si occupa delle pari opportunità negli sport professionistici, per bandire la “N-word”. L’ipotesi che sta considerando è dare una penalità di 15 yard alla squadra di chi la usa e di espellere il giocatore recidivo. Nella discussione c’è molto di più della difficoltà per gli arbitri di controllare il linguaggio: identificare chi pronuncia la parola in una mischia e in un accenno di rissa, decidere come comportarsi se è scambiata fra due componenti della stessa squadra. John Wotten e Harry Carson, rispettivamente il presidente e il direttore esecutivo della Fritz Pollard Alliance, sono favorevoli anche perché ricordano quando, nel 1946, i Cleveland Browns non poterono portare a Miami Marion Motley e Bill Willis: una legge della Florida impediva ai neri di giocare con i bianchi. Charles Barkley, un grande dell’era del primo e unico Dream Team, e Richard Sherman, il safety dei Seattle Seahawks vincitori dell’ultimo Super Bowl, sono contrari perché «non sta all’America bianca decidere le parole che io posso o non posso usare» (Barkley) e perché «è un’idea orribile, che mi suona quasi razzista: semmai bisognerebbe vietare tutte le imprecazioni e gli insulti» (Sherman).
In un clamoroso capovolgimento culturale, le cinque o sei lettere simbolo del razzismo, comunque vietate ai bianchi, sono diventate per i neri la bandiera della libertà di parola.