Wlodek Goldkorn, la Repubblica 18/3/2014, 18 marzo 2014
JONATHAN SAFRAN FOER – [QUANDO GLI UOMINI HANNO PAURA SCRIVONO STORIE]
Jonathan Safran Foer aveva 25 anni quando è stato acclamato genio e speranza della letteratura americana. Correva l’anno 2002 e il giovane scrittore nato a Washington, nel frattempo trasferitosi a Brooklyn dove vive con la moglie Nicole Krauss (pure lei scrittrice celebre) e i due bambini, dava alle stampe Ogni cosa è illuminata, in Italia pubblicato con Guanda. Era un romanzo che raccontava, tra invenzioni linguistiche e di stile, tra molte lacrime e altrettante risate, il viaggio di un ragazzo ebreo americano alla scoperta delle radici in Ucraina. Sullo sfondo: i conti con la Shoah. Era atteso al varco per il secondo libro, un’impresa in cui perfino i grandi mostrano i loro limiti. E invece, nel 2005, il suo Molto forte, incredibilmente vicino venne considerato un altro, struggente, capolavoro. Narrava le peregrinazioni di un bambino in una New York post 11 settembre, alla ricerca delle tracce del padre scomparso nell’attentato alle Torri Gemelle. Seguì Se niente importa, un testo di denuncia delle condizioni in cui vivono gli animali che finiscono nei nostri piatti. Poi ha ritradotto in inglese la Haggadah di Pesakh, il racconto che gli ebrei leggono alla vigilia della loro Pasqua, per ricordare la schiavitù egizia ed esprimere la speranza nell’arrivo del Messia. Infine ha dato alle stampe Tree of Codes, un libro fuori dal comune in cui sono state messe insieme, in forma nuova, parole ritagliate dai testi di Bruno Schulz, scrittore ebreo polacco, ammazzato nel ghetto di Drohobycz nel 1942. Ora sta ultimando il terzo romanzo, in cui si parla della guerra, degli ebrei e di Israele. In questa intervista, da scrittore in guerra, confessa di credere nel ruolo salvifico della letteratura e della parola.
Cominciamo dall’inizio. Perché scriviamo libri e raccontiamo storie?
«È come chiedersi perché l’uccello vola. Lo fa per spostarsi? O perché camminando sulla terra sarebbe stato divorato da un predatore? Sono due ipotesi legittime. Ma la verità è che gli uccelli volano perché è nella loro natura. Lo stesso vale per gli umani; raccontiamo storie perché narrare è nella nostra natura».
Chi scrive romanzi immagina un’altra vita. Lei pensa di ricreare il mondo? O almeno di cambiarlo?
«Qualche volta, per me, scrivere è una semplice attività professionale, come fare il carpentiere. Altre volte ho l’impressione di partecipare alla creazione di un mondo. Ma attenzione: l’idea che la parola sia in grado di creare il mondo è molta ebraica. Tra le prime parole della Genesi c’è la frase “Sia luce e luce fu”. Un desiderio, se articolato a voce alta, diventa realtà. Scrivere un romanzo è un processo analogo. I pensieri e i desideri dello scrittore diventano verità. Detto questo, scrivo per essere conosciuto: prima di tutto a me stesso. Scrivere è un cammino, a volte verso la condivisione della conoscenza, altre volte verso la scoperta di un ricordo, o di un sentimento. Aggiungo: la parola può cambiare il mondo e senz’altro è in grado di cambiare la vita e l’esperienza del lettore, a patto che si usi un linguaggio onesto e che si abbia il coraggio di toccare le emozioni, le più recondite del lettore. Uno scrittore è chi sa farlo; altrimenti tutti scriverebbero romanzi».
In Ogni cosa è illuminata ha ricreato un’Ucraina dei suoi nonni. Ci ha provato a rifare il mondo.
«Un romanzo non può restituire la vita di qualcuno che è morto. Ma può creare vita. Non avevo l’intenzione di ripristinare la vita dei miei nonni, ma immaginare l’esperienza di queste persone. E ritrovare un rapporto con loro. Volevo che la memoria degli sconfitti diventasse parte del futuro».
In quel libro la guerra in Europa del-l’Est è onnipresente. Così come il vero tema di Molto forte, incredibilmente vicino è un’altra guerra; l’attacco alle Torri Gemelle l’11 settembre. Molti pensatori, da Hannah Arendt a Zygmunt Bauman, sostengono che per conoscere un’epoca sono più utili i romanzi che non i testi di storia. Era quella la sua intenzione quando scriveva questo libro?
«L’ho scritto per esprimere le mie angosce (così come il precedente aveva come perno la mia tristezza). C’è chi per imparare consulta libri di filosofia e di sociologia. C’è chi non legge, ma semplicemente cammina per strada. E c’è infine chi fa romanzi. Però l’idea che esista una verità definitiva è seducente quanto pericolosa. Ecco, i romanzi servono anche a ricordare che la verità non è racchiusa in un solo testo. Nei romanzi, ogni protagonista, anche quello antipatico e odioso, è portatore di una sua verità. Credo che per questo le opere di fiction siano indispensabili per l’umanità. Temo però che ora siano svalutate ».
Perché?
«Perché la cultura sta cambiando volto: non per colpa del mercato (quello è sempre esistito), ma a causa della digitalizzazione. Per questo dobbiamo ricordarci che i romanzi sono un fenomeno unico, irripetibile e possono suscitare, grazie alla complessità del linguaggio, riflessioni e sentimenti che nessun’altra forma espressiva è in grado di fare».
La parola può avere quindi una funzione pedagogica, insegnare l’esercizio dell’empatia?
«Certo. Faccio un esempio, il movimento per i diritti umani: delle donne, delle persone di colore, dei gay. Il fattore che ha sempre ostacolato questo movimento è la paura: dell’altro e quindi se stessi. I romanzi aiutano a vincere la paura perché fanno vedere come vivono gli altri e perché si basano sull’immaginazione, che è uno strumento di compassione. Lo diceva il grande poeta polacco Zbigniew Herbert».
Sempre in Molto forte, incredibilmente vicino sente il bisogno di narrare l’esperienza dei bombardamenti di Dresda e di Hiroshima. Perché?
«Ho pensato che fosse giusto farlo. Non stavo facendo alcun parallelo politico o storico tra le situazioni di allora e la New York del 2001. Raccontavo solo il mondo dei protagonisti di questo libro. Sono sempre sorpreso per quello che combinano i personaggi dei miei romanzi. Non ho mai scritto un libro secondo un piano preordinato, e non credo che mai lo farò».
Forse ha raccontato Dresda e Hiroshima perché la vicenda delle Torri Gemelle era indescrivibile. Quando succede qualcosa di inimmaginabile, ricorriamo a un linguaggio usato per situazioni conosciute. Lo hanno fatto anche i primi scrittori che hanno affrontato la Shoah.
«È così. Dopo l’11 settembre ci si sentiva come funamboli che camminano su una corda tesa sopra l’abisso. Mancavano le parole giuste».
Nel finale il bambino Oskar immagina la caduta del padre da una delle torri, ma alla rovescia, come se fosse in salita. E ci sono pagine con le foto di un uomo che salta da una delle torri, ma l’ordine temporale è invertito. L’uomo parte dalla terra e arriva in cima al grattacielo. Un tentativo di rovesciare la nozione del tempo? Lo faceva il suo scrittore preferito, Bruno Schulz.
«È vero. Ma il mio è stato un procedimento intuitivo. Non l’ho pensato a freddo».
Sarà. Ma rovesciare la nozione del tempo, unire l’inizio con la fine è un richiamo ai testi di stampo messianico. La redenzione significa infatti la riparazione di tutti i torti e la sospensione di ogni tempo. Lei potrebbe scrivere senza un riferimento al Messia e senza pensare alla redenzione?
«Scrivere romanzi significa prendersi cura degli altri. Se io ci tengo veramente a te, se voglio avere una relazione con te, ti racconto storie. Scrivere e leggere sono azioni etiche. Aiutano a sopravvivere perfino nella guerra. Primo Levi sopravvive, ad Auschwitz, dal punto di vista spirituale, grazie a Dante».
Dopo Auschwitz, la preghiera ha un senso? Ha senso parlare a Dio?
«Penso che dobbiamo parlare a noi stessi, tra di noi; pensare ad alta voce. La preghiera è fatta di parole. E come dicevo: le parole sono in grado di cambiare il mondo perché ci permettono di condividere pensieri e sentimenti».
(1. Continua)