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 2014  marzo 15 Sabato calendario

VALERIA BILELLO, UN’ITALIANA NEGLI STATI UNITI


Nascosta dietro a un paio di occhiali scuri, jeans e una maglia a righe primaverile, Valeria Bilello è seduta in poltrona nel bar-panetteria affollato che ha scelto per il nostro appuntamento nel quartiere di Porta Venezia a Milano, dove vive («Ma sono cresciuta in provincia, a Buccinasco, in una zona chiamata Mulino Bianco, anche se al Mulino Bianco non assomigliava per niente»). Perché, anche se trascorre parte dell’anno a New York, dove studia (con Susan Batson, la acting coach di Nicole Kidman), lavora e ha un fidanzato, «Milano è mia, giro l’angolo e sono io adolescente. Qui ho un passato, e mi piace».

Valeria ha iniziato a lavorare a 15 anni come modella e a 17 per Mtv. Ha studiato regia («Volevo diventare documentarista») e ha debuttato al cinema in Il papà di Giovanna di Pupi Avati. Dopo l’estate la vedremo nel suo primo film anglo-americano, One chance di David Frankel (il regista di Il diavolo veste Prada). Co-prodotto dai potenti fratelli Weinstein si ispira alle vicende di Paul Potts, giovane inglese con una splendida voce e la passione per la lirica stroncato (nel film) da Luciano Pavarotti e poi campione (davvero) al Britain’s got talent.

Un’italiana che lavora all’estero sembra una specie di miracolo. Come si fa?
Con i provini... Forse il mio inglese fa la differenza, anche se questa volta mi hanno chiesto di italianizzare l’accento dato che interpreto una cantante italiana.

E canta davvero?
Non l’opera, anche se ho preso lezioni per rendere il playback credibile. Mi sto dedicando all’hip hop. Certi testi... Meglio non tradurli, sono violentissimi, “ti rompo il collo e poi te lo metto tra le ginocchia...”, frasi così. Però è utile per la lingua, una canzone a memoria vuol dire centinaia di parole inglesi in più.

È sempre questo il suo metodo di studio?
No... Sono nata a Sciacca, siciliana da generazioni; quando i miei genitori si sono trasferiti a Milano, d’estate mi spedivano dalla nonna: ho imparato subito il dialetto, i bambini sanno diventare indigeni molto più velocemente di noi. Poi, crescendo, subentrano l’imbarazzo e la consapevolezza di non essere del tutto adeguati, e uno smette di crederci.

È un po’ il tema del film. Qualcuno l’ha mai distrutta, come fa Pavarotti con il povero Paul?
Massacrata in quel modo, no; provini severi in cui lasci la stanza con una sensazione di inadeguatezza, sì. Non c’è solo benessere in questo mestiere, anzi.

Da che cosa si lascia scoraggiare?
Dal brutto tempo. Dalla malinconia. Fino a poco tempo fa mi riprendevo passando il tempo con gli amici per distrarmi. Poi mi sono resa conto che, se sto da sola cercando di capire quel che succede, ne esco meglio.

Iniziare a lavorare presto le è servito?
Mi ha formato. Ed è stato un modo per portare avanti qualcosa di mio: mia madre, insegnante, mi aveva fatto smettere attività che toglievano tempo allo studio come il pattinaggio; con la moda mi lasciò continuare, forse perché meno impegnativa. Ma ancora non è convinta, si augura che io cambi idea per fare non si sa bene cosa. Comunque è una fortuna avere un riferimento femminile con i piedi per terra.

Lei non li ha?
A volte fatico a essere “qui e ora”, ma sto migliorando. Quando si riesce si vedono cose incredibili. Spesso invece stiamo in un presente interiore, tutto nostro, rischiando di perdere la magia fuori.

È vero che da piccola è stata in analisi?
Sì, a 8 anni. Ero diventata molto timida, riflessiva, taciturna, adulta, e in famiglia volevano assicurarsi che tutto andasse bene. Di solito con i bambini si usa il disegno, e io riuscii a fregare tutti perché, dato che la stanza della psicologa era tappezzata dai lavori orribili di altri, disegnai le immagini più solari che potevo per dimostrare di essere felice: una casa, fiori, papà e mamma sereni...

Riuscì a ingannare anche la psicologa?
No, perché facevo sempre lo stesso disegno... Ma tutto si risolse in fretta, era una specie di pre-adolescenza precoce che arrivava già con tanta nostalgia.

Nostalgia di?
Qualsiasi cosa. Di tutto ciò che cambia velocemente, mio malgrado.

Non i fidanzati: sta con Daniel Kessler, chitarrista degli Interpol, dal 2007.
La storia più seria della mia vita.

Non dev’essere facile, così lontani.
Non amo chiamarla “relazione a distanza”, è sminuire un rapporto tra due che passano tanto tempo insieme e provano sentimenti forti l’uno per l’altra. Abitare in città diverse non cambia le cose. Anche perché io sono spesso a New York, e lui a Milano.

Sarà bravissima a fare le valigie.
Mostruosa. Non conosco nessuno più bravo di me. Il trucco è portare pochi pezzi abbinabili tra loro, qualche golf molto caldo, micro abiti di seta. Sono passata da posti a caldi a molto freddi nell’arco dello stesso viaggio con una borsa a mano. Questo se sono in vacanza. Per lavoro è diverso, ci sono molte più cose indispensabili.

Ha avuto una storia anche con Francesco Mandelli dei Soliti idioti. Com’era, da fidanzato?
Per niente idiota, anzi, è diventato un uomo molto intelligente. Finì perché eravamo giovanissimi. Ma siamo rimasti amici.