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 2014  marzo 18 Martedì calendario

MAZZINI A ROMA NEL 1849


A mezzanotte del 25 novembre del 1848, Ferdinando II, re delle Due Sicilie, in preda a grande eccitazione convocò i numerosi suoi familiari (alcuni dovette farli svegliare) per annunciar loro che la mattina successiva sarebbero partiti, tutti assieme, alla volta di Gaeta. Aveva appena appreso che proprio alla fortezza di Gaeta si stava dirigendo papa Pio IX, in fuga da Roma. Fuggiva, il Papa, dopo l’uccisione, il 15 novembre, di Pellegrino Rossi, l’unica personalità che, forse, avrebbe saputo trovare una via d’uscita alla complicata situazione che si era venuta a creare dopo che il Pontefice aveva rinunciato alla guerra contro l’Austria. Francia e Spagna si erano contese nei giorni precedenti l’opportunità di offrire rifugio e protezione a Papa Mastai. E lui aveva preso in considerazione l’ipotesi di fuggire in Francia. Ma il conte Spaur, rappresentante del regno di Baviera nonché marito di Teresa Giraud (nipote del famoso commediografo Giovanni Giraud, già vedova di un archeologo, devota al Pontefice, «data nei suoi primi anni ai piaceri dei sensi, poi di lasciva divenuta bigotta al cadere dell’età», l’avrebbe sbeffeggiata il triumviro della Repubblica romana Aurelio Saffi ) lo aveva convinto a desistere. Ancor più il cardinale Giacomo Antonelli — da quel momento eminenza grigia del regime pontificio — gli avrebbe sconsigliato di andare nel Paese dove, ai tempi di Napoleone, nel 1799 aveva trovato la morte, all’età di 82 anni, il suo predecessore Pio VI, esule e imprigionato nella fortezza di Valence. Così Pio IX aveva scelto la via del Sud e si era aperta la stagione di Roma senza il Papa. La Repubblica romana del 1849, come dal titolo del pregevole libro di Giuseppe Monsagrati che sta per essere dato alle stampe dagli editori Laterza. L’8 febbraio del 1849 a Gaeta si sarebbe rifugiato anche Leopoldo II, granduca di Toscana e parente dell’imperatore austriaco, che si era rifiutato di piegarsi alla Costituente. E la fortezza sarebbe diventata così un centro politico di primaria importanza.
Papa Mastai era asceso al soglio due anni prima, nel 1846, dopo la cupa stagione di Gregorio XVI. Era, il nuovo Pontefice, un uomo a cui «piaceva piacere» a tutti, come avrebbe testimoniato il gesuita Carlo M. Curci. Ciò che, all’inizio, gli era pienamente riuscito: «Je daressi un bacio a pizzichetti», si entusiasmò Giuseppe Gioacchino Belli. Anche Giuseppe Garibaldi e Giuseppe Mazzini non avevano nascosto la loro iniziale simpatia nei confronti dell’uomo. Quando, il 15 marzo del 1847, il Santo Padre concesse la libertà di stampa, il cancelliere austriaco Metternich si allarmò: «Un Papa liberale è la cosa più inaudita che si possa pensare». Il 17 aprile il Pontefice aveva poi decretato l’abbattimento delle porte del ghetto, conquistando a sé la simpatia degli ebrei. Il cardinale Tommaso Pasquale Gizzi, dimettendosi nel luglio 1847 da segretario di Stato, aveva previsto che con un Papa come quello, chiunque avesse guidato la segreteria di Stato avrebbe avuto enormi problemi a governare. Qualche tempo dopo lo stesso Metternich aveva vaticinato: «Se le cose seguono il loro corso naturale Pio IX si farà cacciare da Roma». Ciò che sarebbe puntualmente accaduto dopo che nel 1848 il Papa aveva dapprima (il 10 febbraio) lasciato intendere che avrebbe dato il suo avallo alla guerra contro l’Austria, salvo poi tirarsi indietro (il 29 aprile) e precipitare nel caos una Roma ormai inebriata dal mito patriottico. Generando confusione tra gli uomini di Chiesa e anche tra i patrioti. Un disordine di cui sono prova due fatti: nella sessione legislativa che si tenne il giorno dell’attentato a Pellegrino Rossi, da parte del presidente non fu fatto neanche un cenno all’assassinio dello statista; la sera «si ebbero persino — organizzati confusamente in un’area liberal-democratica — cortei di manifestanti che scorrazzarono per il Corso inneggiando al tirannicidio». Tant’è che si ipotizzò che l’attentato potesse avere una matrice mazziniana. Ipotesi priva di fondamento, scrive Monsagrati, dal momento che «Mazzini in quel momento era tutto preso dallo sforzo di rivitalizzare la lotta armata nel Nord Italia e Roma gli cascò addosso a sorpresa, senza che vi avesse inviato nessuno dei suoi maggiori collaboratori, nessuno che potesse prendere la direzione di un moto che per riuscire avrebbe avuto comunque bisogno della partecipazione dei cospiratori romani». Secondo Carlo Cattaneo, «Pio IX fu fatto da altri e si disfece da sé. Pio IX era una favola immaginata per insegnare al popolo una verità. Pio IX era una poesia». E però, scrive Monsagrati, «al contatto con la dura realtà del ’48 la favola e la poesia si erano come dissolte ed era rimasto un vuoto che attendeva solo di essere colmato».
Quando poi il Papa lasciò Roma, si fece avanti per gradi la cosiddetta stagione repubblicana. In vista delle elezioni per l’Assemblea Costituente, in gennaio si fecero anche quelle che Monsagrati definisce una sorta di «primarie», nel senso che «si creò un comitato incaricato di sondare gli umori del popolo in merito alle preferenze e si indicarono i nomi dei candidati per l’Assemblea». Su 750 mila aventi diritto, andarono a votare in 250 mila, non pochi per l’Europa dell’epoca, che aveva pochissimi precedenti in fatto di suffragio universale. Garibaldi fu il tredicesimo su 16 eletti nel collegio di Macerata, non un grande successo. Terenzio Mamiani si oppose alla proposta di dichiarare decaduto il dominio temporale del Papa. In dieci votarono contro la proclamazione della Repubblica: nove lasciarono da quel momento i lavori dell’Assemblea; uno, il bolognese Rodolfo Audinot, rimase. Quel giorno Mazzini non era presente, si trovava ancora in Toscana. Roma, fa osservare lo storico, «senza tradizioni di monarchia (quella papale era del tutto atipica) era la sola città in cui, caduto il papato, la repubblica potesse nascere come se fosse la cosa più naturale del mondo». Ed è in modo fluido che si giunse alla nascita della Repubblica. Il 21 febbraio fu votato l’incameramento dei beni ecclesiastici, con l’intesa che sarebbe stato il governo a provvedere alle spese per il culto. Il 27 febbraio fu la volta della legge sul prestito forzoso per rimpinguare le casse dello Stato. Per il giornalismo furono mesi di grande libertà, simboleggiati dal successo del settimanale satirico «Don Pirlone», una sorta di «Punch» romano. Due volte il popolo si ribellò, costringendo il governo a fare marcia indietro: la prima quando fu deciso il sequestro di tutte le campane (anche se erano escluse quelle delle basiliche); la seconda quando si procedette ad analoga iniziativa con i confessionali e gli arredi sacri. Fu «una questione di devozione popolare», afferma Monsagrati, «ma c’entrava qualcosa anche l’innato gusto estetico di una popolazione orgogliosa dei propri monumenti e istintivamente consapevole di cosa significassero per l’identità collettiva».
Il 29 marzo fu costituito il triumvirato. Primo triumviro fu Giuseppe Mazzini. Secondo il già citato Saffi. Terzo l’avvocato concistoriale Carlo Armellini (tra i più votati alle elezioni), forse il più inviso a Pio IX, che lo definì «miserabile», sottolineando che era «padre e fratello di due gesuiti». L’uomo costituiva uno dei pochi anelli di collegamento con la precedente esperienza repubblicana della città, quella napoleonica del 1798-99. Tra i primi atti del nuovo esecutivo, quello di dimezzarsi («per riguardo alle tristi fortune del Paese») l’assegno mensile. Non si trattò, però, di un atto demagogico, dal momento che nessuno di loro fece parola di questa decisione e la si conobbe solo molti mesi dopo la caduta della Repubblica, quando ne dette notizia, a posteriori, uno dei tre triumviri, Saffi. Ma Pio IX restava forte e continuava a godere di un vasto consenso internazionale. Una lettera (22 febbraio 1849) di Nathan Niles, incaricato d’affari degli Stati Uniti presso il Regno sardo, a James Buchanan, segretario di Stato del suo Paese, si schiera decisamente a favore di Pio IX, attribuendo l’origine della crisi romana all’«attività irresponsabile» dei cospiratori (i quali — a detta di Niles — facevano leva su «una più che spregevole marmaglia di canaglie e banditi che riempiono le strade di Roma») e sconsigliava il riconoscimento della Repubblica romana.
A quel punto cambia tutto. Con un motu proprio il Pontefice scomunica «chiunque ardisce rendersi colpevole di qualsivoglia attentato contro la temporale Sovranità dei Sommi Romani Pontefici». Il cardinale Antonelli organizza la risposta armata contro gli usurpatori, alla quale è disposto ad associare chiunque, persino i turchi. Ma sono quattro le potenze da lui espressamente chiamate in causa il 18 febbraio del 1849: «Poiché l’Austria, la Francia, la Spagna e il Regno delle Due Sicilie si trovano per la loro posizione geografica in posizione di potere sollecitamente accorrere colle loro armi a ristabilire nei dominj della Santa Sede l’ordine manomesso da un’orda di settarj … il Santo Padre dimanda con piena fiducia il loro intervento armato per liberare principalmente lo Stato della Chiesa da quella fazione di tristi che con ogni sorta di scelleraggini vi esercita il più atroce dispotismo».
Il rischio avvertito a Parigi dal presidente Luigi Napoleone Bonaparte (il futuro Napoleone III) era che l’Austria cogliesse l’occasione per allargare ancor più la sua sfera d’influenza sulla penisola e fu in questa chiave che venne concepito l’intervento francese. Lo dissero apertamente nel dibattito all’Assemblea di Parigi sia il generale Christophe Léon de Lamoriciére che il presidente del Consiglio Odilon Barrot. Il 24 aprile le truppe francesi, agli ordini di Nicholas-Charles-Victor Oudinot, sbarcarono a Civitavecchia senza che la presenza di quei militari sul suolo laziale — che pur suscitò sconcerto — a Roma fosse vista come una reale minaccia. Tanto più che i soldati, appena sbarcati, alzarono un albero della libertà, «evocatore di antichi ricordi giacobini» e vi intrecciarono i due tricolori. Ma soprattutto, per il fatto che, quando approdò allo stesso lido il battaglione dei bersaglieri lombardi comandato da Luciano Manara, Oudinot li lasciò scendere a terra, li fece prigionieri salvo poi liberarli subito, dopo aver ottenuto da loro l’impegno formale che non sarebbero entrati in azione fino al 5 maggio, data per la quale evidentemente calcolava che tutto sarebbe stato risolto. E ancor più per il fatto che il 30 aprile i repubblicani romani avevano fermato i francesi con relativa facilità. Tutto sommato gli uomini di Oudinot non facevano paura.
Semmai Roma avvertiva come avvisaglie di una futura minaccia comportamenti tipo quello della «banda Zambianchi». Il forlivese Callimaco Zambianchi, già buon amico di Garibaldi e successivamente di Mazzini (anche se Monsagrati esclude che agisse a suo ordine), approfittando del trambusto provocato dallo sbarco dei francesi, si diede a operazioni terroristiche dapprima a Terracina, poi nella stessa Roma. Sequestrò e uccise il domenicano Vincenzo Sghirla e successivamente, tra il 30 aprile e il 4 maggio, fece fuori una decina di altri ecclesiastici, tutti condotti nei sotterranei del convento di S. Calisto, torturati e infine trucidati. Quando si seppe di quei delitti, l’impressione fu notevole e quegli episodi non giovarono alla reputazione della Repubblica. Mazzini entrò quindi in contrasto con Garibaldi, allorché questi arruolò alcuni delinquenti di Ancona, fatti precedentemente arrestare da Felice Orsini: «Voi non sapete il male che fate a noi e alla Repubblica, volendo ritenere quei d’Ancona con voi; è il colpo più forte che possa in questo momento darsi al governo», gli disse. E in effetti la propaganda del cardinale Antonelli dette risonanza agli episodi di violenza dei repubblicani. Ciò che consente adesso a Monsagrati di definire «innegabile» che nella Roma del 1849 ci fosse «un sostrato in cui la violenza sociale incrociò questo principio di rivoluzione nazionale». Chi si accorse per tempo che qualcosa non andava per il verso giusto fu Carlo Pisacane, il quale entrò in polemica sia con Garibaldi, a cui pure lo legava un sentimento di devozione («prode, prodissimo, ma non capisce niente di milizie», disse Cattaneo stesso dell’eroe dei due mondi), sia con Mazzini, al quale rimproverava la linea eccessivamente condiscendente nei confronti della Francia, definita dal leader repubblicano «Repubblica sorella». Mazzini aveva ordinato che i feriti francesi fossero curati negli ospedali romani e che i prigionieri fossero restituiti senza contropartita: riteneva che, una volta rientrati nei loro ranghi, si sarebbero trasformati in «ambasciatori di solidarietà repubblicana». La Francia stette al gioco e, il 15 maggio, inviò a Roma Ferdinand de Lesseps, perché intavolasse una trattativa. Questi convinse Oudinot a concedere una tregua fino ai primi di giugno. E trovò persino un accordo che però fu mandato all’aria da Luigi Napoleone e da Oudinot: Lesseps, tornato in Francia, fu accusato di arrendevolezza e ne ebbe stroncata la carriera diplomatica.
Il 3 giugno, la parola, tra romani e francesi, passò alle armi. E per Roma repubblicana fu l’inizio della fine. La prima a farne le spese, come accade sempre in casi come questo, fu la libertà di stampa, nella persona di Francesco Dall’Ongaro, direttore del «Monitore Romano» (rimasto l’unico giornale aperto dopo che erano stati chiusi «la Pallade», la «Speranza dell’Epoca», il «Contemporaneo», il «Don Pirlone»). Fu il momento del massimo, ancorché comprensibile, disordine: Dall’Ongaro fu rimosso dall’incarico dopo che il deputato Cesare Agostini lo aveva accusato di disfattismo. Il ministro della Guerra Giuseppe Avezzana si fece assegnare 150 condannati ai lavori forzati rinchiusi in Castel S. Angelo da mettere agli ordini di Garibaldi. La sera stessa il comandante in capo Pietro Roselli lamentò che solo 38 avevano fatto ritorno al luogo di pena. Garibaldi fece poi arrestare per insubordinazione il colonnello Luigi Amadei, ufficiale del Genio. Alla data 5 giugno 1849 del diario del repubblicano Luigi Filippo Polidori si può leggere: «Moltissimi cominciano a desiderare che i francesi entrino presto, anche ostilmente». Per «dare un’idea più aperta del regime», la Repubblica contraddicendosi dopo il «caso Dall’Ongaro», fece riaprire «Pallade», «Speranza», «Contemporaneo» e «Don Pirlone». Garibaldi nel frattempo faceva incetta di vino da dare ai suoi uomini per infondere coraggio. Poi li guidava in una sortita notturna con camicie bianche (la «notte dell’incamiciata») perché evitassero di colpirsi l’un l’altro. Ma a quel punto la partita era già persa.
In realtà, di partita, a Gaeta se ne stava giocando un’altra. Il cardinale Antonelli induceva Pio IX a mettere all’indice le opere di Antonio Rosmini, Vincenzo Gioberti e Gioacchino Ventura. Il Pontefice aveva appena ricevuto, a fine maggio, Rosmini, dandogli dimostrazione di una qualche cordialità. Ed ecco che su Rosmini si abbattevano i fulmini della curia e addirittura un provvedimento (poi rientrato) di espulsione dal Regno delle Due Sicilie. Un autentico complotto, al termine del quale Papa Mastai era costretto a tornare sui suoi passi. Secondo il principale biografo del Pontefice, Giacomo Martina (nel libro Pio IX , editore Pontificia Università Gregoriana) Antonelli era «ansioso di eliminare un avversario intellettualmente superiore», Rosmini appunto. E, prosegue Monsagrati, «assieme ad Antonelli lavorava dietro le quinte tutta una camarilla di corte che da tempo intercettava le lettere di Rosmini al Papa e lo metteva in cattiva luce». Ma il vero obiettivo di Antonelli era probabilmente più ambizioso: costringere Pio IX a rinnegare pubblicamente l’iniziale biennio del suo pontificato, quello liberale e riformatore. Il primo ministro sardo, Massimo d’Azeglio, inviava a Gaeta Cesare Balbo per indurre Pio IX a tornare allo spirito del 1846-48. Ma senza successo. Ci provava addirittura Tocqueville. Ma anche lui urtava contro il muro eretto da Antonelli. E il Papa da quel momento si conquistò la fama dell’uomo che faceva marcia indietro. «Niente sta a cuore del buon Pio IX in questo losco mondo, quanto il purgarsi della taccia di principe riformatore», scrisse Marco Minghetti futuro presidente del Consiglio nell’Italia unita.
Il 12 giugno Oudinot indirizzava alla Costituente romana un ultimatum. Il 19 giugno Ancona si arrendeva agli austriaci. Gli uomini di Oudinot adesso avevano fretta. Si spargeva la voce che Mazzini volesse far saltare in aria la «madre» di tutte le basiliche romane. Ed era lui stesso a dover smentire all’amica Margaret Fuller che aveva dato credito alla diceria: «Potete credere per un solo momento a una tale assurdità che S. Pietro sia minato, mentre io sono qui? Mi sono forse dimostrato un vandalo o un uomo del ’93?», le domandava. Laddove, per inciso, è interessante notare quale bassa considerazione il leader repubblicano abbia sempre avuto di Robespierre e della fase giacobina della Rivoluzione francese. Il 30 giugno fu il giorno della battaglia decisiva a porta San Pancrazio, sotto un temporale scrosciante. Il 1° luglio — fuori tempo massimo — l’Assemblea Costituente approvò una Costituzione molto moderna, che non sarebbe mai stata applicata a un Repubblica ormai defunta. Tale Costituzione, però, avrebbe fatto da modello a tutte le esperienze rivoluzionarie del secolo e anche di quello successivo: « A leggerla oggi», scrive Monsagrati, «si resta colpiti da due caratteri, l’originalità e l’essenzialità, come se fosse uscita da una sola testa e come se quella testa avesse avuto per unico scopo quello di dare voce alle aspirazioni e ai bisogni di una collettività molto coesa». Da modello fece anche l’«orazion picciola» con la quale Garibaldi invitò i suoi a seguirlo verso nuove avventure: «Io esco da Roma; chi vuol continuare la guerra contro lo straniero, venga con me; io non offro né paga, né quartieri, né provvigioni; io offro fame, sete, marce forzate, battaglie e morte. Chi ha il nome d’Italia non sulle labbra soltanto, ma nel cuore, mi segua». Parole non immuni dal vizio dell’enfasi, destinate a diventare le più celebri tra quelle pronunciate da Garibaldi nel corso dell’intera vita.
A differenza di Garibaldi, Mazzini volle restare per giorni e giorni nella Roma «liberata» dai francesi «offrendomi vittima facile a ogni offeso che volesse vendicarsi», come scriverà qualche anno dopo in polemica con chi lo aveva accusato di «aver governato con il terrore». Per offenderlo ancora una volta, andando a ripescare la vecchia immagine del «terrorista che manda a morire gli altri standosene al sicuro», si disse che un salvacondotto inglese gli avesse evitato l’arresto. Ma non era vero. Lui restò a Roma «per osservare le reazioni del popolo romano» e per contare di capire in quale misura su quelle genti avrebbe potuto contare in futuro. Girò per la città, interrogò amici, sentì le pressioni e gli argomenti di chi insisteva perché lui fuggisse. Furono «giorni di grande travaglio interiore, spesi con l’illusione di essere ancora in grado di organizzare una lotta di popolo contro l’occupante o di poter raccogliere fuori città ciò che restava dell’esercito repubblicano per tentare un ultimo, disperato, colpo di mano». Il 16 luglio si imbarcò, clandestino, da Civitavecchia alla volta di Marsiglia. Charles Dickens si augurava un suo ritorno in Inghilterra, dicendo che «il mondo non può permettersi di perdere uomini come lui». E Thomas Carlyle, pur mostrandosi scettico nei confronti del suo operato, «ne esaltava senza mezzi termini le qualità morali».
A Roma, l’incaricato d’affari statunitense Lewis Cass junior, che pure si era entusiasmato per la Repubblica, descriveva adesso «la meravigliosa versatilità tipica degli italiani che stavano rapidamente riconciliandosi con il nuovo ordine di cose e si mescolavano alle truppe straniere, alcuni per fare amicizia, altri per osservare da vicino le loro divise». Il prefetto di polizia François Chapuis il 14 luglio festeggiava l’anniversario della presa della Bastiglia sopprimendo tutti i giornali, compresi quelli filopapali. E Pio IX mostrò di non aver nessuna fretta di tornare nella «sua» città. Anzi, da Gaeta si trasferì ancora più a sud, a Portici, dove Ferdinando II aveva la sua residenza estiva, «servita» da una ferrovia che esibiva come prova della modernità del suo regno. Il Papa sarebbe tornato a Roma solo il 12 aprile del 1850, dopo essere stato accompagnato da Ferdinando fino al confine, nei pressi di Terracina. Da Terracina, distante un’ottantina di chilometri, il corteo papale avrebbe impiegato altri sei giorni di viaggio. La città fu ripulita di ogni traccia repubblicana, non fu fatto niente per ricordare i «ribelli» caduti (tra i quali Goffredo Mameli, Luciano Manara, Enrico Dandolo, Francesco Daverio, Emilio Morosini) ma qualcosa sì per commemorare l’esercito vincitore: in particolare la lapide onoraria fatta apporre nella chiesa di S. Luigi dei Francesi, la Porta S. Pancrazio e l’arco trionfale disegnato da Andrea Busiri Vici, eretto tra il 1857 e il 1859 sulle rovine di villa Corsini. I francesi rimasero a Roma fino al 1866 per quella che, non senza malizia, Monsagrati definisce la «penultima occupazione straniera della Capitale».

paolo.mieli@rcs.it