Giovanni Bignami, La Stampa 18/3/2014, 18 marzo 2014
UN’ARABA FENICE CHE VALE IL NOBEL
Tutti crediamo nel Big Bang, ma nessuno lo ha mai visto. Per forza: così vicino all’origine dell’Universo, come magistralmente descritto nelle «Cosmicomiche» di Italo Calvino, quella cosa che noi chiamiamo «vedere» non esisteva proprio.
I fotoni, cioè la radiazione elettromagnetica che ci fornisce la grande maggioranza dell’informazione sull’Universo, non ce la fanno ad uscire dal denso e caldissimo Universo neonato.
Ma sui momenti iniziali dell’unico Universo che per ora conosciamo, il nostro, sarebbe invece cruciale sapere qualcosa di concreto, al di là della fantasia di Calvino e dei cosmologi teorici. Forse adesso è la volta buona. Ieri, a Harvard, sono stati presentati i risultati di uno speciale telescopio dal nome muscoloso di «Bicep 2», posto in Antartide e capace di captare, in modo indiretto, la presenza di quell’araba fenice dell’astrofisica: le onde gravitazionali. Che ci siano, tutti lo dicono, anche perché per primo lo ha detto Einstein; dove siano, tutti pensano di saperlo, ma nessuno le ha mai rivelate direttamente. A differenza della luce, però, le onde gravitazionali riescono ad uscire dall’Universo iniziale e in un modo un po’ contorto a raccontarcelo, se sappiamo ascoltarle. Ed il telescopio in Antartide ha saputo farlo, pare.
Ha captato le impronte delle onde gravitazionali mentre seguivano la velocissima espansione della materia primordiale dell’Universo, più di 13 miliardi di anni fa. Troppo deboli per essere rivelate direttamente, le onde immaginate da Einstein hanno però lasciato la loro impronta nella temperatura del fondo del cielo, qualcosa che dal Polo Sud, posto freddissimo, si misura molto bene. Se la rivelazione del telescopio fosse corretta, sarebbe da Nobel: la prima evidenza sperimentale che la famosa inflazione dell’Universo è esistita e che lega tutto quello che è successo dopo (tipo galassie, stelle e alla fine noi stessi) il famoso Big Bang. Cioè, in un colpo solo, sfruttare le onde gravitazionali per arrivare a qualcosa finora postulato ma mai capito: come ha fatto l’Universo a diventare così grande così in fretta?
Il filo rosso che lega il Big Bang a noi diventerebbe così sempre più solido, il che sarebbe una bella soddisfazione, anche per chi cerca di capire cosa ci facciamo noi qui. Ma se gli americani ce l’hanno fatta, e per di più guardando solo il 2% del cielo, lo devono un po’ anche a noi europei ed italiani, che con la missione «Planck» abbiamo fornito la miglior fotografia mai fatta dell’Universo appena diventato visibile. Proprio a partire da quella è stato possibile andare all’indietro e vedere l’ombra lasciata dal passaggio delle onde gravitazionali. A tutti noi resta, comunque, la soddisfazione di sapere che quei pochi litri di idrogeno che tutti abbiamo dentro, e che sono un pezzettino di Big Bang, adesso sono anche un legame ancor meglio capito con l’Universo e con la sua evoluzione. Non sembra, ma un po’ abbiamo tutti quasi 14 miliardi di anni, anche se non li dimostriamo.